Robinson, 22 agosto 2020
Riscoprire Anna Banti
Sibilla Aleramo è la scrittrice che, con meno artifici degli altri, coglie l’animo profondo di Anna Banti e ce ne lascia un ricordo definitivo. Di lei dice che ella possiede un invincibile complesso d’inferiorità rispetto alla vita, e che questo si sente pure nei suoi libri. In effetti dirla schiva è dire nulla: odiava il salotto dell’amica Maria Bellonci proprio perché non era possibile frequentarlo senza trovarsi a dover «parlare senza averne voglia, senza voglia ridere». E in quel salotto si racconta degli slalom che faceva tra gli invitati per non essere fotografata.
Si celò, all’inizio della sua carriera letteraria, per parecchi anni, riuscendovi. Anche il nome con cui tutti la conosciamo era un nom de plume: Anna Banti era una lontana parente di sua madre che lei stessa ricorda sempre velata, quasi non avesse il coraggio di esporre, dice, la propria pelle al sole.
Sono gli anni Trenta, la donna che si nasconde dietro quella firma si chiama Lucia Lopresti, nata nel 1895 a Firenze, figlia unica, vissuta a Bologna, a Roma, e ancora in Toscana; storica dell’arte, moglie di Roberto Longhi ma, spiegherà poi a Sandra Petrignani (alla quale affida memorie commoven-tissime), non voleva usare né il nome della sua famiglia né quello del marito. Così nasce Anna Banti: con un racconto mandato a un concorso letterario che non vincerà, e firmato così perché, analizzando la figura di quella vecchia parente ritrovata nella memoria, «scorgevo in essa il simbolo di un’eterna condizione della donna; quel suo esistere all’ombra dell’uomo, quel dipendere da lui». Celarsi quindi inventandosi una nuova identità, un modo autonomo di stare al mondo, per esempio scrivere, quando tutta la sua carriera di studi l’avrebbe dovuta condurre a interessarsi d’arte, scoprire pennellate dietro quadri non attribuiti, seguire Longhi, critico affermato, docente universitario, alle esibizioni di Londra e di Parigi.
Ma proprio davanti a quei quadri succede qualcosa: Lucia Lopresti riconosce di interessarsi più alla storia che c’è nel quadro che al quadro stesso. Emergono, da quelle tele, i personaggi. Da quei personaggi, da quei panneggi, dagli sfondi, dai capelli in crocchia, le vengono fuori storie. È un’esperienza che ricorda fin da bambina: ricorda di aver vergato in stampatello a quattro anni un incipit: «C’era una volta una regina», e poi, intorno ai sei anni, di aver pensato che tutto ciò che desiderava era che gli adulti credessero incondizionatamente alle storie che raccontava. Artemisia Gentileschi, la pittrice del Seicento a cui dedica il suo romanzo più conosciuto, somma su di sé ogni sua curiosità, tutte le sue passioni: la pittura, la scrittura, il talento e il suo modo complicato di affermarsi quando si nasce donne. Sono questi i temi che troveremo nell’esperienza di Banti, nei suoi libri, tantissimi, curati splendidamente da Fausta Garavini, sia in un Meridiano Mondadori, per le sue opere maggiori, sia in Racconti ritrovati ( La Nave di Teseo), che sono la raccolta di testi davvero ripescati dalle innumerevoli riviste su cui scriveva, o davvero dimenticati nei cassetti o prime stesure di opere che poi, nel tempo, diverranno altro.
Lucia Lopresti è talmente schiva che accarezza per tutta la vita l’idea di ritirarsi in convento, in realtà la vagheggia, questa vita monastica, come possibilità di quiete, quando è stanca delle incombenze naturali della vita coniugale e anche semplicemente di quella mondana. È di grande sostegno al marito, che spesso si scora, e forse questo sostegno è ricambiato, ma si guarda attorno e cerca a suo modo” una stanza tutta per sé”, come Virginia Woolf.
Anche quando diverrà la riconosciuta scrittrice Anna Banti si chiede quando arriverà per lei la liberazione di una celletta e di una scodella di minestra la sera ( tra i racconti, regala un destino monastico almeno a qualche sua protagonista). Entrambi gli snodi esistenziali, il matrimonio e la scrittura, paiono avvenuti con una parte di lei che vi cedeva e un’altra che si meravigliava. Ricorda di essersi innamorata di Longhi in terza liceo, lei studentessa di questo professore giovane, e gli scriverà: «Eri arrivato a una cosa che ritenevo impossibile – innamorare Lucia Lopresti». Annota l’esperienza della scrittura come punto di arrivo dei suoi desideri in Vocazioni indistinte, li ricorda come anni” scombinati”, con il disagio di «cambiar se stessa, di seminare e crescere germi misteriosi». Quando l’editore le chiede una foto a corredo della sua prima pubblicazione gli gioca un tiro sadico: gli manda la foto di un’altra donna, una parente austera. Per un po’ funziona. Ma tra il primo e il secondo racconto passano anni e poi arriva la Seconda guerra mondiale e perderà due manoscritti nelle macerie di una casa minata per rallentare l’arrivo degli alleati. Se ne duole fortemente, dice: come è brutto non essere più neppure in un foglio. Lei che era precisa, precisissima, che sa, come è, che il talento da solo non serve a nulla: «Non credo all’ispirazione, ma alla perseveranza. Io scrivo tutti i giorni, anzi tutti i pomeriggi, tra le tre e le cinque. Se non lo faccio mi sento morire».
Sappiamo che scriveva la prima stesura su un quaderno, a matita, per poi trascrivere a macchina. Dopo la guerra, con la rinascita della vita culturale del paese, e con la crescente fama di scrittrice, questa sua indole schiva le viene addebitata come una colpa, dicono di lei che ha “un caratteraccio” e ovviamente, visto che scrive sempre di donne, la fama di questo caratteraccio assume subito le connotazioni del femminismo. Lo è, ma lei non lo sa: il suo è un femminismo intimo, non militante. È in lei, nelle sue opere, la voglia di riscatto da questa condizione, ribalta i destini di personaggi storici, di Laura, di Beatrice, di Paolina, e assieme intesse un mosaico di figure che la consegnano d’un balzo al genere weird, con Le donne muoiono ambientato nel 2617 in una società in cui uomini e donne menano vite del tutto separate. Morirà anche lei, a Ronchi, nel 1985.