Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2020  agosto 22 Sabato calendario

Intervista a Margaret Atwood

«Ora sono una vedova. All’improvviso, ho scoperto che sono simile a tante altre donne che prima non vedevo». In questo sospiro che chiude la nostra conversazione c’è tutta Margaret Atwood: la sua femminilità universale, la fenomenale cantrice delle donne negli ultimi due secoli, il dolore per l’adorato partner Graeme Gibson, morto l’anno scorso dopo, « mi faccia contare, sì, quasi cinquant’anni insieme » . La grande scrittrice canadese ha un abisso dentro. Tossisce. Ma, come in tutto il resto della sua vita, non ha paura. Nemmeno del coronavirus: «Ho ottant’anni oramai, non ti spaventi troppo a questa età. Sia chiaro: è una malattia estremamente seria e senza un vaccino non torneremo alla normalità. Ma sono nata nel 1939, i miei genitori scamparono la febbre spagnola del 1918 e ho già vissuto tempi simili: fino agli anni Cinquanta e Sessanta non c’erano i vaccini di oggi, e nemmeno molti antibiotici, la penicillina scarseggiava. Quando ero piccola circolavano la poliomielite, il vaiolo… e se qualcuno si ammalava, si chiudeva in casa in quarantena e gli lasciavano il cibo alla porta. Come oggi ». Per l’autrice dei capolavori L’assassino cieco, L’altra Grace, il più celebre Il racconto dell’ancella e il suo seguito uscito l’anno scorso, I testamenti ( Ponte alle Grazie), gli scrittori non possono ignorare le conseguenze del Covid, nemmeno nelle loro opere: «È impossibile, a meno che non si tratti di romanzi storici o ambientati nel futuro. È una pandemia troppo pervasiva, in ogni aspetto della vita e della società».
Lei ha sempre preferito definire le "distopie" dei suoi libri come piuttosto una "finzione speculativa". Oggi, a causa del coronavirus, stiamo vivendo una "realtà speculativa"?
«Capisco lo straniamento. Ma "speculativa" è quando si immaginano i pericoli di un prossimo futuro. Questa è invece pura realtà. Fino a quando non ce ne renderemo tutti conto, sarà difficile uscirne».
Il coronavirus ha anche infettato i sentimenti? Non possiamo più baciarci, abbracciarci…
«Di sicuro. Ma abbiamo rallentato le nostre vite, e questo non è necessariamente un male. Abbiamo più tempo per pensare e, quindi, per vivere e soppesare meglio le emozioni, i nostri sentimenti. L’altro aspetto importante è la riconciliazione con la natura e l’ambiente».
Un pilastro della sua formazione intellettuale.
«Già. Ma l’ambiente non è un monolite a sé: il cambiamento climatico provoca devastazione e quindi ancora più povertà, disuguaglianze, tensioni, rivolte… forse un giorno anche una guerra».
Tre settimane fa il "Guardian" scriveva che, causa pandemia, le donne rischiano di tornare agli anni Cinquanta e Sessanta e bruciare tutti i diritti conquistati negli ultimi decenni: a casa, a cucinare, a badare ai figli…
«In effetti, insieme alla carta igienica, la farina è stato l’altro prodotto sparito dagli scaffali dei supermercati all’inizio del lockdown: era tornato il pane fatto in casa!
Comunque no, non credo. Le nuove generazioni di donne, per fortuna, sono nate e cresciute in un altro, irreversibile contesto. Se oggi va via la luce per qualche ora, non torni mica alla lampada a cherosene».
Quindi non ci saranno più "ancelle" sottomesse, da nuovi regimi maschilisti?
«Oh no! E nemmeno le casalinghe del 1955. Anche perché, grazie a Internet, siamo una società creativa. Non torneremo indietro. La catastrofe invece è che ora potrebbero truccare queste elezioni».
Parla degli Stati Uniti?
«Oh sì, e di quel bimbo piagnucoloso al potere, il "macho" disertore dell’esercito, Donald Trump. Ma ha visto che vuole anche bloccare il voto per posta?».
Come immagina lo scontro Trump-Kamala Harris, prima donna nera candidata alla vicepresidenza?
«Sarà molto interessante».
Qualche giorno fa, uno studio del Centre for Economic Policy Research spiegava come, da Merkel alla neozelandese Ardern, le leader mondiali donne si siano dimostrate molto più efficaci nella lotta alla pandemia rispetto agli uomini. Un caso?
«Certo che no. Perché le donne non sono "machiste" come Trump e il suo amico brasiliano Bolsonaro, presunti "uomini forti"».
Perché?
«Perché le donne si dimostrano molto più attente alle vite umane rispetto a coloro che pensavano di affrontare la pandemia facendo i "duri", senza ricorrere a misure di contenimento. O, peggio, perseguendo l’immunità di gregge. È molto raro che una donna decida di sacrificare così tante vite per un simile obiettivo».
Lei però si è sempre guardata bene dal definirsi femminista. O dall’usare quest’etichetta.
«Perché non capisco mai cosa intendano con femminismo. Lo spiegai tempo fa in un articolo sul Globe and Mail dal titolo: "Sono una cattiva femminista?".
Femminismo è riconoscere che le donne hanno un cervello e che possono prendere autonomamente le loro decisioni? Benissimo. Ma quando il femminismo diventa un dogma che elude i fatti ed esclude le opinioni di chi la pensa diversamente, allora non ci sto».
Scrisse quell’articolo perché criticata da molte femministe dopo aver chiesto un’inchiesta indipendente su Steven Galloway, professore alla University of British Columbia e presunto molestatore di donne.
«Un uomo è automaticamente colpevole perché una donna lo accusa? No. Altrimenti è razzismo strutturale.
Ricorda, qualche tempo fa, la donna a Central Park di New York che si mise a urlare, accusando un nero di averla minacciata? Se non ci fosse stato il video a smentirla — si era inventata tutto — per molti avremmo dovuto crederle a prescindere. Perciò ripeto sempre: servono fatti, fatti, fatti».
E qui arriviamo alla lettera che lei ha firmato di recente con altri celebri scrittori mondiali come Salman Rushdie e Martin Amis, contro la cosiddetta "cancel culture" e a favore della libertà di espressione "oggi minacciata da un clima intollerante".
«Premesso: come nel mio Canto di Penelope, ovvero l’Odissea raccontata dal punto di vista femminile, le donne, ma anche le minoranze di ogni genere, gli africani, gli indigeni del Canada, sono stati discriminati nella Storia e ora stanno provando a ri-raccontarla dalla loro prospettiva, dopo secoli ai margini. Giustissimo. Ma non bisogna mai scendere in un oltranzismo in cui ogni parere che devia dalla "linea" viene censurato, boicottato, demolito a prescindere. Prima di attaccare qualcuno online, ripeto, bisogna studiare i fatti. Andate a leggervi Dare to speak: Defending Free Speech for All ( Azzardarsi a parlare: in difesa della libertà di parola) di Suzanne Nossel: è l’opera che sintetizza perfettamente come combattere il razzismo, anche linguistico, e l’odio, senza scadere in una censura stalinista».
Quella lettera fu firmata anche da J. K. Rowling, travolta dalle polemiche per aver fatto intendere che per lei una trans non è una donna vera, in quanto non "donna biologica".
«Sono cose che dovrebbe chiedere a Rowling».
Ma lei, Atwood, ha scritto di donne e gender tutta la sua vita. Che idea si è fatta?
«Mettiamola così: è vero e giusto quello che è stato detto? Che possiamo classificarci solo con "uomo" e "donna"?
Secondo me no, perché questa è una visione binaria di molte religioni o altre ideologie con i due generi manichei. Oggi sappiamo che ci sono più di due semplici "scatole" o categorie come uomo e donna. Persino nell’antichità classica c’erano ermafroditi e divinità maschili e femminili insieme. La biologia non è solo "uomo-donna": apparteniamo tutti a una fertile "campana" della natura e dovremmo gioire delle sue infinite varietà. Quindi è corretto dire che esistono solo due "scatole" di genere? No. Ed è giusto atteggiarsi a come se ci fossero? No, nemmeno».