la Repubblica, 22 agosto 2020
Parla Roula Khalaf, direttrice del Financial Times
Dove va il giornalismo, nell’era digitale, al tempo della pandemia? «L’obiettivo è sempre lo stesso, produrre la migliore informazione possibile, ma la differenza è che ora dobbiamo pensare prima al web e poi al giornale cartaceo, e che oggi sappiamo, grazie ai data, chi sono e cosa vogliono i lettori», risponde Roula Khalaf, direttrice del Financial Times, la prima donna alla guida del più importante quotidiano europeo. Nata e cresciuta a Beirut, dopo un master in affari internazionali alla Columbia University e gli inizi nella redazione newyorchese della rivista Forbes (fu lei a scoprire le truffe del “Lupo di Wall Street” del film con Leonardo DiCaprio), è stata sempre nel quotidiano della City, come corrispondente dal Nord Africa e dal Medio Oriente, capo del settore esteri, columnist e vicedirettore, prima di assumerne la direzione nel gennaio scorso. Un buon osservatorio per capire il futuro delle news.
Come vede il ruolo del direttore di un grande quotidiano nell’era digitale?
«Il ruolo fondamentale non è cambiato. Quale che sia la piattaforma, l’obiettivo è sempre produrre il giornalismo della miglior qualità possibile, motivare i giornalisti, mantenerli entusiasti, affamati di scoop e trovare i migliori talenti. Cambia però il lavoro quotidiano, perché non hai più tutto il giorno per inviare un pezzo, bensì c’è una programmazione continua. Non pensiamo più solo a cosa pubblicheremo domani, ma cosa diamo ai lettori in ogni momento della giornata. Un’altra differenza è che ora, grazie ai data, sappiamo chi sono i nostri lettori, dove sono, a che ora ci leggono e cosa leggono, e questo ci permette di adeguarci alle loro esigenze. Il digitale ti spinge a innovare incessantemente, a pensare costantemente a cosa vogliono i lettori».
E come vede il ruolo dei giornali, in un’epoca in cui i lettori, prima ancora di leggerli, conoscono già la maggior parte delle notizie?
«Oggi i lettori sono divisi in due gruppi. Uno è completamente digitalizzato. L’altro è la generazione ancora attaccata alla carta: gente che segue le news su siti e piattaforme mobili ma vuole lo stesso qualcosa dai giornali cartacei, la spiegazione delle notizie, il commento, l’analisi, per la quale può aspettare anche il giorno dopo. In generale e in particolare al Ft, inoltre, bisogna distinguere fra i lettori dei giorni feriali e quelli del weekend. Abbiamo lettori che non comprano il giornale cartaceo dal lunedì al venerdì, ma lo comprano il sabato (il Ft non esce la domenica, ndr), magari per leggerlo a letto e condividere gli inserti in famiglia».
Come funziona da voi l’integrazione fra carta e web?
“Nella nostra redazione voglio che tutti pensino per prima cosa al digitale. La stragrande maggioranza dei nostri lettori, circa un milione di abbonati, sono online, perciò dobbiamo dare la precedenza al web. Da quello, poi, produciamo il giornale cartaceo. In passato succedeva il contrario: all’inizio dell’era digitale cercavamo di tradurre il giornale di carta in prodotto digitale. Ora voglio portare questa svolta ancora più avanti, producendo storie specificatamente per il digitale. Ho un gruppo di redattori che lavorano sul cartaceo, con il compito di estrarre dal digitale quello che è particolarmente adatto alla carta. Ma viene prima il web. Ciò che per me rimane importante, nel cartaceo, è la prima pagina: perché è l’espressione del nostro brand. C’è ancora interesse per la prima pagina, so che certi direttori non le danno più attenzione ma io voglio ancora vederla prima che il giornale vada in stampa. Attraverso questo processo, in cui il digitale ha la preminenza, non bisogna trattare l’edizione cartacea come se fosse di seconda classe. La produzione delle due facce del giornale, web e carta, è differente, ma la qualità è la stessa e l’organizzazione giornalistica è una sola. Così ormai parlo del Ft, non dico più “il giornale” o “il sito”, dico “l’organizzazione giornalistica”».
Mark Thompson, amministratore delegato uscente del New York Times, predice che i giornali di carta scompariranno entro dieci anni. Concorda?
«Penso che di sicuro esisterà ancora l’edizione cartacea del weekend del Financial Times. All’inizio della pandemia ho cominciato a chiedermi per quanto continuerà a esistere l’edizione dei giorni feriali, ma mi sembra che abbiamo affrontato bene la tempesta. Siamo un’industria in continua evoluzione. Predire se o quando finirà il cartaceo dipende dai risultati economici. Certo siamo affezionati alla carta. È l’espressione più potente del nostro brand. Spero dunque che fra dieci anni avremo ancora un giornale di carta dal lunedì al venerdì. E sono sicura al 100 per cento che lo avremo nel weekend».
Parlando di pandemia, come ha influito sul lavoro di redazione lo smart working?
«Con mia grande sorpresa abbiamo avuto una transizione abbastanza facile fin dal primo giorno. La produzione del giornale va avanti benissimo lo stesso. Richiede un maggiore sforzo da parte della direzione, perché non vuoi che i tuoi giornalisti si sentano isolati. La cosa più importante per me è stata rimanere egualmente in contatto con i colleghi».
Considerando anche il declino delle inserzioni pubblicitarie provocato dalla pandemia, crede che gli abbonamenti siano il business model giusto per i giornali?
«Assolutamente sì. Il modello giusto è questo. I lettori sono disposti a pagare per le news, se la qualità lo merita. Durante la pandemia abbiamo avuto successo nell’attrarre nuovi abbonamenti, la partecipazione è stata molto forte».
Quanto è importante l’interazione tra la redazione e la comunità dei lettori?
«È molto importante. Io rispondo immediatamente alle email dei lettori, che qualche volta si sorprendono perché rispondo in 5 minuti. E presto molta attenzione ai commenti dei lettori pubblicati sotto gli articoli del sito. Il Ft è una famiglia unita, con uno stretto rapporto con i suoi lettori anche prima dell’era digitale. È importante per i lettori sapere che siamo pronti ad ascoltarli. Un’innovazione che mi piace è che, se ci sono molti commenti a una storia, le pubblichiamo a parte. Un’altra sono gli eventi in redazione con i lettori su fatti che suscitano grande attenzione. Poi abbiamo il nostro festival annuale, in cui incontriamo i lettori e fra l’altro replichiamo una riunione del mattino dal vivo: i lettori adorano essere in grado di entrare nel giornale, vedere da vicino, per così dire, la cucina del Ft».
E quanto conta la copertura delle notizie estere per il Ft?
«Abbiamo più di 100 corrispondenti, in circa 40-50 uffici di corrispondenza all’estero, in particolare in Europa, che per noi è estremamente importante. I nostri lettori sono globali: 60 per cento in Europa, 25 per cento in Usa, il resto in Asia. Siamo un’organizzazione giornalistica globale: portiamo il mondo ai lettori e i lettori lo apprezzano».
A proposito: lei è nata e cresciuta a Beirut, è stata corrispondente dal Medio Oriente. Le cose in quella regione stanno cambiando in fretta, come dimostra la pace fra Israele e Emirati. Pensa che il suo paese natio potrà uscire dal caos in cui è precipitato?
«Penso che il Libano sia una vera tragedia, perché è un paese che ha così tanto da offrire ma è tirato così in basso dalla sua classe politica. Raramente l’ho visto senza speranza come ora. Alcuni dicono che le cose devono peggiorare ancora di più, prima che possano migliorare, ma non ne sono tanto sicura, perché il sistema di governo libanese non è facile da cambiare. Un giorno il Libano dovrebbe essere un’autentica democrazia: l’attuale sistema settario non funziona. Penso che molti giovani siano d’accordo, ma gli interessi siano troppo radicati per cambiare. Non sono ottimista. Una volta il Libano era un modello per il mondo arabo. Chissà quando lo sarà di nuovo».