Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2020  agosto 21 Venerdì calendario

L’uccisione di Cesare

La notte che precedette le Idi di Marzo del 44 avanti Cristo, Calpurnia sognò che il tetto della casa crollava e che il marito Giulio Cesare le veniva assassinato in grembo. Lui stesso ebbe una visione tragica (e megalomane): sognò di volare al di sopra delle nubi e di stringere la mano a Giove. Sebbene di indole poco superstiziosa, all’alba del 15 marzo il dittatore si allarmò; oltre all’agitazione della moglie gli indovini lo avvertivano che i sacrifici davano segni infausti. Allora pensò di disdire la riunione del Senato tramite Antonio – tra l’altro aveva appena fatto licenziare la scorta per dimostrare di essere un cittadino come gli altri. Ma a impedirgli di cambiare programma intervenne insidioso un uomo di cui Cesare si fidava, Decimo Bruto, che prendendo in giro gli indovini, lo afferrò per la mano e lo sospinse fuori casa. Stava per scattare l’azione omicida ricostruita da Barbara Biscotti nel primo volume della serie «Grandi delitti nella storia», in omaggio domani con il «Corriere».
I congiurati si erano diretti in Senato. I capi erano Cassio, del partito di Pompeo da sempre avverso a Cesare, e Marco Giunio Bruto, uomo prediletto dal dittatore, e secondo alcuni suo figlio illegittimo, scelto proprio per coalizzare i cesariani dissidenti. Bruto si armò e si mosse da casa sua da solo, gli altri partirono in gruppo dalla casa di Cassio verso il Foro e poi il Portico di Pompeo, dove si sarebbe svolta la seduta. Invano Artemidoro di Cnido, maestro di greco, tentò di avvertire Cesare porgendogli un messaggio, che non fu mai letto a causa della calca che premeva il dittatore nel tragitto. Successe persino che un servo annunciò che Porcia, la moglie di Bruto, stava morendo (aveva perso i sensi per la tensione), ma il piano proseguì.
Frattanto i senatori erano entrati nell’atrio e i congiurati si erano collocati tutt’intorno allo scranno dove si sedeva Cesare, tranne uno, Trebonio, rimasto sulla soglia con il compito di impedire ad Antonio di entrare. Fu Tillio Cimbro ad avviare l’azione, gettandosi ai piedi di Cesare con una supplica per chiedere il ritorno del fratello dall’esilio. Tutti si unirono alla richiesta baciando le mani e il petto del dittatore, poi Tillio gli afferrò con entrambe le mani la toga tirandogliela giù dal collo: era il segnale convenuto. Casca e il fratello, i primi pugnalatori, si avventarono su Cesare e lo ferirono a morte. Cesare urlò: «Ma questa è violenza!» (Svetonio). Oppure: «Che fai, scellerato Casca?» (Plutarco).
Dopo il primo colpo, il dittatore afferrò il braccio di Casca e lo ferì con lo stilo, ma fu subito raggiunto da altri colpi e circondato. Poi tentò di balzare in piedi: «Quando però si accorse che da ogni parte gli venivano addosso con i pugnali levati, si avvolse il capo nella toga e con la sinistra ne tirò giù il lembo fino ai piedi per cadere decorosamente»; emise un solo gemito e non disse una parola. Secondo altri invece, rivolto a Giunio Bruto che levava il pugnale, avrebbe detto solo «Anche tu, figlio?».
Secondo Plutarco Cesare ruzzolò fino ai piedi della statua di Pompeo, inondata dal sangue del dittatore «così da far pensare che lo stesso Pompeo presiedesse alla vendetta sul suo nemico». Bruto e Cassio però non ebbero il coraggio di gettare il cadavere nel Tevere, come avevano progettato, e si dispersero nell’andirivieni isterico dei senatori. Il corpo martoriato rimase per un po’ nell’atrio ormai deserto, finché tre schiavi, depostolo su una lettiga con un braccio penzoloni, lo riportarono a casa.
I congiurati non seppero gestire lo scompiglio che seguì l’attentato, mentre i cesariani ne assunsero subito la regia: quel cadavere suscitava così grandi emozioni nel popolo da poter determinare gli sviluppi politici. Il 20 marzo la salma fu portata nel Foro e posta in una edicola aurea, davanti ai rostri, dove fu esposta la veste squarciata dalle pugnalate. L’apparizione del corpo del dittatore, portato a braccia dai magistrati, produsse grande commozione, acuita da una trovata teatrale, un fantoccio di cera con le fattezze di Cesare, trafitto da ventitré pugnalate e orrendamente sfigurato, che veniva spostato di qua e di là in tutte le direzioni, per mostrare a tutti il corpo, che altrimenti giaceva supino e dunque non si vedeva bene.
A questo punto il popolo esplose: alcuni uomini appiccarono il fuoco, in un clima di apoteosi e di vendetta, un colossale rogo in cui fu gettato di tutto, dai mobili alle vesti che gli attori e i musicanti impegnati nei ludi funebri si strappavano di dosso.

In una lettera ad Attico, scritta appena due mesi dopo la morte di Cesare, Cicerone, favorevole alla congiura, così sintetizza il suo giudizio sui «liberatori»: «Coraggio da veri uomini, cervello da bambini». Dione Cassio, che non risparmia critiche a Cesare vivo, condannava senza appello il delitto. Prima di lui Velleio criticava come demagogico il ricorso da parte di Bruto e Cassio ai termini «tiranno» e «tirannide» per definire la posizione di Cesare.
A coloro che ponevano il dilemma se fosse meglio per lo Stato romano che lui nascesse o invece che non nascesse, lo storico Tito Livio, citato da Seneca, rispondeva che Cesare era come il vento, una forza che nuoce per colpa di chi la usa male, ma non cessa di essere per sua natura un bene. Una critica velata alla nuova guerra civile sorta dopo la morte del Divo Giulio, che diede il definitivo colpo di grazia alla Repubblica.