Avvenire, 21 agosto 2020
L’India non sa affrontare la pandemia
Dopo aver registrato il numero più elevato di casi in un giorno sfiorando i 70mila mercoledì e i 68.560 ieri, l’India si interroga sulle prospettive di un contagio che continua a imperversare dalla conclusione dei due mesi di doppio lockdown nazionale a fine maggio. In una realtà vasta e variegata, molti fattori contribuiscono a diffondere più che a limitare un contagio che ha finora interessato 2,9 milioni di individui e provocato 55mila decessi. Se il rientro di decine di milioni di migranti interni ai luoghi d’origine è stato tra i veicoli del contagio, ora il loro ritorno per necessità nelle città dove possono trovare opportunità di lavoro rischia di diventare un fattore di rinnovata diffusione del coronavirus nelle metropoli.
Da lunedì, colonne di immigrati si sono formate ai principali accessi all’area metropolitana di Delhi per essere ammessi o messi in quarantena in base ai risultati dei test. Una scelta difficile, quella delle autorità di Delhi, pressate tra la necessità di contenimento del contagio e quella di accogliere manodopera indispensabile alle manifatture e ai servizi della capitale. Ieri, sono stati comunicati i dati – basati su un campione selezionato di 15mila cittadini testati nella prima settimana di agosto – dello screening statistico che ha mostrato come il 29 per cento della popolazione di 20 milioni abbia sviluppato gli anticorpi al coronavirus.
Un qualche aiuto a meglio definire le strategie nazionali può venire dal significativo incremento dei test qualitativi, arrivati giovedì a 730mila giornalieri ma che le autorità indiane intendono portare al milione. Ritenuti comunque insufficienti per una popolazione superiore a 1,3 miliardi e giudicati poco affidabili. Se il ritmo del contagio non dovesse diminuire drasticamente, è previsto che il Paese raggiunga tre milioni di casi complessivi entro domani e che entro il mese possa affiancare il Brasile al secondo posto mondiale, anche se il tasso percentuale di decessi in India è solo dell’1,9% a fronte del 3,5% globale.
Con il passare del tempo, il “caso” indiano non solo si conferma quello di maggiore consistenza in Asia ma anche uno di
più articolati e di difficile analisi, sia riguardo i dati del contagio, sia le sue linee di diffusione sia, ancora, per la reazione del governo federale e di quelli locali che godono di ampia discrezionalità e che non possono negare garanzie di occupazione e reddito a una consistente parte della popolazione già abitualmente vicina o sotto la linea della povertà.
Una questione, quella delle sofferenze dei gruppi già meno favoriti sollevata anche dalla Chiesa indiana. Nei giorni scorsi – segnala AsiaNews – i vescovi cattolici dello Stato meridionale del Kerala hanno chiesto l’applicazione della legge che assegna il 10% dei posti di lavoro governativi e nelle scuole pubbliche ai cittadini che abbiano origini dalit (fuoricasta), adivasi (tribali, indigeni) o in «altre classi disagiate», ma che dallo scorso anno sono stati estesi ai poveri delle caste elevate. Una condizione che la Chiesa chiede che venga applicata anche ai cristiani di origine dalit, finora esclusi. Sulle mancanze del governo centrale punta l’opposizione parlamentare. Un esponente del Partito del Congresso ha confermato che la formazione guidata da Rahul Gandhi utilizzerà la prossima sessione parlamentare dal 10 settembre per evidenziare la parzialità dell’intervento pubblico. «Siamo stati il terzo Paese al mondo a superare i due milioni di casi di Covid-19. Abbiamo anche sperimentato una chiusura mal concepita che ha dato come risultati una pesante crisi economica e una disoccupazione massiccia». Il governo «deve ora spiegarci – ha concluso – perché e come ha fallito nel contenere la pandemia».