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 2020  agosto 21 Venerdì calendario

Catalogo di spie e oppositori uccisi in Russia

Che un giorno o l’altro potesse morire in quel modo atroce, in fondo Alexander Litvinenko se lo aspettava. Due anni prima di essere ucciso dal polonio, l’ex agente dell’Fsb, fuggito dalla Russia nel Regno Unito e visceralmente critico dei metodi di governo di Vladimir Putin, confidò al New York Times: «Nella nostra agenzia era opinione piuttosto diffusa che il veleno fosse una semplice arma, come una pistola. So che in Occidente non è così, ma da noi era considerato come uno strumento piuttosto ordinario».
Litvinenko morì il 22 novembre 2006, in seguito ad avvelenamento da polonio, anche in questo caso somministrato in una tazza di tè, dopo tre settimane di agonia allo University College Hospital di Londra. Nonostante i soliti sospetti sugli autori dell’omicidio (i servizi russi), la pista dei mandanti è restata sempre avvolta nella nebbia.
Di veleno alla fine non sono morti Sergej Skripal, un altro ex agente russo, ex colonnello e collaboratore dei servizi delle forze armate (Gru), anch’egli rifiugiatosi in Inghilterra dopo uno scambio tra spie, e la figlia Julia. A differenza di Litvinenko, il tentativo di avvelenamento attraverso uno dei gas nervini più tossici e letali, il novachok, spruzzato in abbondanza sulla porta della loro abitazione a Salisbury, non è andato in porto. Dopo terapia intensiva, lunghe cure e riabilitazione i due se la sono cavata e, secondo alcune fonti, sarebbero ora ospiti sotto protezione, secondo lo schema di collaborazione del “Five Eyes” (la rete di servizi segreti britannici, americani, canadesi, australiani e neozelandesi) della Nuova Zelanda.
Non sempre sono state utilizzate sostanze radioattive o gas nervini. Come diceva lo stesso Litvinenko, il veleno era sullo stesso piano della pistola. E la pistola, quattro colpi ciascuno, è stata utilizzata per uccidere sia Boris Nemtsov nel febbraio 2015, un altro importante oppositore di Putin e uno dei leader della destra liberale, e la giornalista Anna Politkovskaja (6 ottobre 2006), che al leader del Cremlino non aveva mai risparmiato critiche feroci nei suoi libri e nei suoi articoli, a cominciare dalla guerra in Cecenia: il primo su un ponte vicino alla Piazza Rossa; la seconda nell’ascensore di casa, mentre stava rientrando. Dell’omicidio Nemtsov sono stati giudicati colpevoli cinque ceceni, che avrebbero intascato una “taglia” equivalente a 230mila dollari. Solito mistero fitto, invece, su chi li avesse ingaggiati.
Ancora più misteriosa, perché non è stata causata da un’arma da fuoco o da un veleno, è stata la morte dell’avvocato d’affari e revisore Sergej Magnitsky, che aveva messo in luce elevatissimi gradi di corruzione nelle alte sfere dell’amministrazione fiscale. Il suo interessamento e le sue denunce gli valsero un arresto per frode fiscale e quasi un anno di carcere. Morì ufficialmente, il 16 novembre 2009, per infarto, sette giorni prima che scadesse il termine – un anno, appunto – che permette alle autorità russe di tenere in prigione un accusato senza processarlo. In realtà le sue condizioni di salute in carcere si deteriorarono rapidamente (soffriva anche di pancreatite).
Non solo non fu sottoposto a cure ma, come evidenziò una prima inchiesta del Consiglio presidenziale russo dei diritti umani, venne ripetutamente percosso. Stessa conclusione alla quale arrivò la Corte europea dei diritti umani, l’anno scorso, condannando la Russia per «violazioni multiple» nei confronti della vittima.
La vicenda suscitò un’ondata internazionale di indignazione e portò a una legge del Congresso americano nel 2012, ribattezzata Magnitsky Act, il cui obiettivo era quello di sanzionare i dirigenti russi coinvolti nella morte dell’avvocato. Questa stessa legge, dal 2016 si applica a chiunque si sia reso responsabile di violazione dei diritti umani e tra le altre cose prevede il divieto di ingresso negli Stati Uniti.