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 2020  agosto 20 Giovedì calendario

Il Covid e la mutazione delle comunità ultraortodosse

Smartphone, computer, Wi-Fi. E un aumento degli accessi ai siti di informazione online pari a circa l’80% rispetto ai mesi pre-pandemia. Succede nelle comunità ultraortodosse di Israele, che sono state i primi focolai di contagio e che adesso si trovano nel bel mezzo di una svolta storica. La necessità di capire i problemi collegati al Coronavirus accedendo alla rete Internet ha stravolto alcune delle dinamiche fondamentali che da centinaia di anni disciplinavano la quotidianità degli haredim. Soprattutto in rapporto all’utilizzo dei media. Tzvika Binder, regista di Nayess («Notizie» in yiddish), una delle più seguite serie televisive israeliane, ha messo il fenomeno davanti all’obbiettivo della sua telecamera e ha scritto per Netflix il documentario The right not to know (Il diritto di non sapere). «Fino a gennaio nessuno avrebbe mai potuto nemmeno immaginare di sottoporre a valutazione le disposizioni di un rabbino come Chaim Kanievsky – 92 anni –, considerato figura di massimo livello nell’ebraismo, a livello mondiale – spiega ad Avvenire il regista –. Quando a febbraio in Israele si registrarono i primi contagi, prima negò pubblicamente l’esistenza della malattia, poi disse che, nonostante il pericolo esterno, non avrebbe mai raggiunto gli haredim». L’aumento esponenziale di infezioni (di cui il 70% nelle comunità ultraortodosse) ha imposto una revisione. Rav Yerachmiel Gershon Edelstein, seconda figura di riferimento dell’ebraismo israeliano, ha preso posizione, avvisando dei rischi, attraverso canali specializzati, i membri della comunità ortodossa. Che hanno cominciato non soltanto a indossare mascherine ed evitare assembramenti, ma anche a visitare le pagine Web dedicate al tema. Un cambiamento enorme dopo secoli di isolamento mediatico. O meglio, dopo decenni di “peculiarità mediatica”, come viene raccontato nella serie tv di Binder. Nella comunità, infatti, esiste una “industria specifica” appositamente organizzata per diffondere notizie nel rispetto dei divieti della kasherut (la regola ebraica). È possibile, per esempio, descrivere l’universo femminile ma senza mai mostrare il volto di una donna. «Persino nel settore delle pubblicità – spiega il documentarista – compaiono parrucche e abiti da sposa, ma senza una modella che li indossi». Così come esistono siti dedicati esclusivamente alla vita degli ultraortodossi, con filtri speciali per non mostrare il viso delle donne. Anche quando si tratta di foto paparazzate durante le nozze o i bar mitzvah dei nipoti dei rabbini più famosi del Paese. «Sono occasioni a cui partecipano centinaia di persone poiché in una società in cui non esistono teatri, cinema e musei – continua il regista – un matrimonio o un funerale sono gli unici grandi eventi a cui si può prendere parte». Per celebrarli vengono affittati anche stadi interi, come si fa da noi per un concerto rock. O, almeno, come si faceva prima dell’epidemia, che nel frattempo sta dilagando tra Gerusalemme, Bnei Brak e tutti i più grandi quartieri ultraortodossi. Lo scorso mese, rav Edelstein è apparso, per la prima volta nella storia, in diretta sui social. Non una semplice novità, ma un cambio di paradigma. «Tra il bianco e il nero – sottolinea Binder – improvvisamente si è insinuato il grigio. E una volta che questo processo si è avviato, credo sarà impossibile fermarlo». In particolare il “contagio mediatico” si diffonde tra le nuove generazioni di haredim, raggiunte, ora, da giovani giornalisti che oltre al cellulare kosher (senza accesso alla rete) sono legittimati ad utilizzare lo smartphone. «Tutto ciò – conclude il regista – avrà forti ripercussioni. Anche sul piano politico».