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 2020  agosto 20 Giovedì calendario

Henri-Enrico Cernuschi italiano di Francia

Intorno al parco Monceau, a Parigi, le famiglie dei grandi industriali e uomini di finanza avevano già costruito le loro eleganti dimore, quando, nel 1873, Henri Cernuschi, banchiere in vista, si accaparrò l’ultima parcella rimasta, al 7 dell’avenue Velasquez. Era celibe, non aveva figli, ma fece costruire un raffinato palazzo dove vivere con la sua straordinaria collezione d’arte cinese e giapponese. Henri, in realtà, era nato (nel 1821) Enrico, figlio di un’agiata famiglia ebraica milanese, patriota italiano (repubblicano federalista in opposizione all’unitarismo mazziniano): fu un personaggio di spicco delle Cinque giornate di Milano, nel 1848, e deputato dell’effimera Repubblica romana, per poi fuggire in esilio a Parigi, dove si rifece una vita dal nulla nell’alta finanza in quegli anni di sfacciata crescita economica, il Secondo impero di Napoleone III. Ma l’Asia cosa c’entra? Ci arriviamo.
«Cernuschi fu un uomo dalle mille sfaccettature. Appassionato di politica fin da giovane, lo rimase tutta la vita e lo spirito repubblicano non l’abbandonò mai, anche se a Parigi riuscì a restare prudente, quando tirava un’aria politicamente avversa alla sua. Arrivò a fondare la Banque de Paris, diventata poi l’attuale Paribas, ancora oggi uno dei gruppi bancari più importanti del Paese», sottolinea Eric Lefebvre, direttore del museo Cernuschi. E alla sua morte questo palazzotto con il suo prezioso contenuto venne donato da Enrico-Henri alla città di Parigi, per farne un museo: un sentito atto di generosità. «Cernuschi restò sempre un grande liberale, anche per il suo approccio alla vita. E già dal 1875, poco dopo la fine dei lavori di costruzione del palazzo, dava la possibilità a chi volesse di venirlo a visitare, con tutte le sue opere, su appuntamento», ricorda Manuela Moscatello, responsabile delle collezioni giapponesi. «Aveva questo spirito di condivisione».
Al momento della Comune di Parigi (1871), se la vide brutta, sempre per l’insana passione per la politica. Per un pelo scampò a un’esecuzione, volendo difendere un amico. «Quell’esperienza fu per lui uno schock», continua la Moscatello. «Subito dopo, decise di partire per un lungo viaggio nell’Estremo Oriente». Tra il 1871 e il ’73 andò in Giappone e Cina, poi in Sri Lanka e India, sempre accompagnato da un critico d’arte, Théodore Duret. Perché fin dagli inizi aveva deciso che avrebbe comprato opere artistiche. Si concentrò su quelle giapponesi e cinesi, più di quattromila oggetti, che poi fece spedire a Parigi in 900 casse. E, poiché lui non faceva mai le cose a metà, aveva un’idea precisa in testa: «Privilegiò i bronzi, sapendo che gli altri a Parigi preferivano ceramiche o gli oggetti di pietra dall’Asia», aggiunge Lefebvre. L’idea fa ancora oggi della Cernuschi una collezione originale.
A giugno il museo è stato riaperto, uno dei primi in città dopo il confinamento. E dopo nove lunghi mesi di pausa per un vasto restauro. «Siamo voluti ritornare sulle pareti a un rosso come quello delle lacche cinesi», continua Lefebvre, «che era il colore scelto in origine da Cernuschi, con un richiamo all’Asia, e che fa molto salone ottocentesco». Nel 2005, in un precedente restauro, era stato imposto un beige (moderno e triste). Non solo: è stato rinnovato almeno il 60%, degli oggetti esposti. «Prima c’era un focus sulle collezioni cinesi e su quelle più antiche, dalla preistoria fino alla dinastia Song, terminata nel tredicesimo secolo», spiega il direttore. «Ora abbiamo valorizzato anche il Giappone e aggiunto tante opere acquisite dal museo dopo la morte di Cernuschi». Si arriva all’epoca contemporanea, vedi alcune rare ceramiche del pittore cinese Zao Wou Ki. Sono presenti pure pezzi di altri Paesi asiatici, dal Vietnam alla Corea. Mentre si sta allestendo una mostra sulle stampe nipponiche, da Hiroshige a Kuniyoshi, che s’inizierà il 16 ottobre. Da sottolineare: in Giappone la rivoluzione Meiji (1868) aveva obbligato le famiglie nobili a vendere certi oggetti preziosi a prezzi davvero molto abbordabili per il ricco Cernuschi. Che era pur sempre un uomo di business.
Tra gli oggetti esposti, due tigri. Una è di legno laccato d’oro, con occhi di vetro, ed è datata tra il XVIII e il XIX secolo: apparteneva a Sarah Bernhardt (1844-1923). L’attrice la propose a Cernuschi perché aveva bisogno di soldi. Un’altra tigre è riprodotta in un vaso cinese di bronzo dalle diaboliche fattezze, dell’XI secolo avanti Cristo. E poi il Buddah Amida giapponese, gigante bronzeo di 4,4 metri, scovato da Cernuchi nel giardino di un tempio andato in fumo a Tokyo, nel quartiere di Meguro. Domina il salone dove Henri-Enrico organizzava i suoi mitici balli in maschera e banchetti. Non mancava mai Emile Zola. E neppure pittori come Gustave Moreau. Che a quell’Asia amata e sognata da Cernuschi s’ispiravano per la loro arte.