la Repubblica, 20 agosto 2020
Record di Apple: in Borsa vale 2 mila miliardi
Il Big Bang di Apple polverizza un nuovo record nella storia del capitalismo, lancia un segnale di ottimismo sulla salute dell’economia americana (o almeno di una parte di quell’economia). Le conseguenze di questo boom di Borsa possono estendersi fino alla campagna elettorale o allo scontro geopolitico Usa-Cina. L’azienda della Silicon Valley fondata da Steve Jobs e guidata dopo la sua morte da Tim Cooks è la prima a superare la soglia dei duemila miliardi di dollari di capitalizzazione. Il valore azionario di Apple ne fa la regina mondiale delle Borse, ed è il risultato di una progressione spettacolare, con accelerazioni formidabili. L’altra soglia simbolica, quella del trilione (mille miliardi), Apple la superò solo due anni fa. Rispetto al 23 marzo di quest’anno, nella fase più negativa quando l’azione cadde ai minimi del 2020 per l’allarme coronavirus, ha più che raddoppiato il valore. La performance spettacolare è in parte la conseguenza diretta di questa pandemia. Con la diffusione del lavoro a distanza, studio a distanza, relazioni sociali a distanza, consumi culturali a distanza, sono aumentate le vendite di tutti i prodotti della gamma Apple, dagli iPhone agli iPad ai computer Mac. Il secondo trimestre, quello più colpito dai lockdown, ha segnato una crescita dell’11% nel fatturato. Non può sfuggire un dato geopolitico: Apple è stata indicata più volte come una vittima potenziale delle misure protezioniste di Donald Trump. Poiché l’azienda californiana assembla molti prodotti in Cina, ed ha in quel Paese un mercato importante, la si è spesso considerata vulnerabile alle ritorsioni di Pechino. La sua salute eccellente per ora toglie un argomento a quei detrattori di Trump che giudicano nefasto il suo braccio di ferro con Xi Jinping.
L’exploit di Apple in Borsa non è affatto isolato, e anche questo ha rilevanza politica. Dietro Apple corrono anche Amazon e Microsoft, ambedue attorno a 1.600 miliardi di dollari di capitalizzazione. Tutto il settore digitale emerge come il grande vincitore della pandemia: di fatto, è come se la West Coast degli Stati Uniti avesse passato gli ultimi dieci anni a costruire un futuro di smartworking per tutti, e quando è arrivato il momento ne ha raccolto i frutti. Trump è tornato a esaltare il boom di Borsa nei suoi ultimi comizi, e si capisce perché: l’indice Standard&Poor’s 500 ha ormai completamente cancellato le perdite del 2020 ed è tornato a segnare nuovi record. Ma quanto è indicativo della situazione economica in generale? I mercati azionari ci rappresentano una realtà parziale, per il peso preponderante che hanno conquistato nei listini le aziende Big Tech. I cinque giganti del digitale (Apple Amazon Microsoft Alphabet-Google e Facebook) ormai valgono il 25% di tutto l’indice S&P500; hanno raddoppiato il loro peso relativo in soli quattro anni. Apple vale 11 volte quella ex-regina della Borsa nella Old Economy che era stata la compagnia petrolifera Exxon. Certo la dimensione e la vitalità del settore digitale Usa non si limita ai cinque leader, dietro di loro ci sono aziende minori che vanno annoverate tra le vincitrici di questa crisi (da Cisco a Netflix, da Logitech a Zoom, per citarne alcune). Però dal punto di vista dell’impatto occupazionale e sociale c’è una vasta porzione dell’economia che ha sofferto duramente e ha distrutto decine di milioni di posti di lavoro, senza che questo si rifletta adeguatamente negli indici “sintetici” di Wall Street.
L’exploit della Borsa americana viene analizzato anche per quel che dice dello scenario elettorale. Trump vuole usarlo come prova che sotto la sua guida la crisi è stata breve e si sta già concludendo con una veloce ripresa. Di certo gli investitori – americani o stranieri – non sembrano preoccupati dalle incertezze elettorali. Questo fa pensare che non prendano sul serio le ambizioni riformiste dei democratici, finora in vantaggio nei sondaggi. Almeno finché dominavano la scena esponenti dell’ala sinistra come Bernie Sanders ed Elizabeth Warren, la Silicon Valley sembrava destinata a subire un’offensiva antitrust. Dalle quotazioni di Borsa si direbbe che quella minaccia non è considerata all’ordine del giorno.