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 2020  agosto 19 Mercoledì calendario

Intervista a Edoardo Bennato

Utilizzando un’espressione vagamente collodiana, retaggio di un’antica frequentazione, Edoardo Bennato assicura di avere «un album bell’e pronto , da pubblicare per novembre». Contiene brani inediti che lui definisce ironicamente “dieci canzonette”. Intanto continua la promozione di un libro di memorie con alcune visioni personali sul mondo contemporaneo, intitolato Girogirotondo. E il 28 sarà al Festival internazionale del videoclip Imaginaction (all’aeroporto di Forlì dal 27 al 29 agosto, parte del ricavato a supporto dei professionisti del settore dello spettacolo colpiti dalla crisi), invitato tra gli ospiti speciali «forse anche perché nel ’77 sceneggiai le prime clip per l’album Burattino senza fili ». Nel mezzo alcune date di un tour che continua nonostante le limitazioni del Covid: il 12 settembre all’Arena di Verona.
È un momento difficile, soprattutto per la musica dal vivo.
«Continuiamo a vivere una situazione di disagio kafkiana che non avremmo mai potuto immaginare, una situazione spettrale. Noi apparteniamo a quelle generazioni che la guerra non l’hanno mai vista, solo spettacolarizzata al cinema o nei telegiornali. I componenti di quella parte della famiglia umana che latitudinalmente hanno assunto senso di responsabilità nel panorama mondiale hanno capito che la terza guerra mondiale sarebbe stata la distruzione. Ciò a cui assistiamo non è dunque una guerra mondiale ma qualcosa di più infido, ottenebra i cervelli, distrugge l’anima».
Nel libro parla dell’umanità come famiglia umana, un’unica razza.
«Un’unica razza che si è diversificata apparentemente nello spostamento latitudinale. È un tema che ho sviluppato nel mio album del 2015 Pronti a salpare e nella mostra "In cammino", una serie di quadri che hanno tutti per soggetto la dignità dei "vu cumprà" sulle nostre spiagge. Questa complementarità tra il musicista, il sociologo e l’urbanista per me c’è dalla prima ora, da quando ho scritto canzoni come Salviamo il salvabile , Arrivano i buoni , Ma che bella città , Uno buono , che poi era lo sfottò al Presidente della Repubblica di allora, quando evidentemente ancora si poteva».
Parlando di immigrazione, come risolverebbe il problema degli sbarchi?
«In Girogirotondo canto: "tutti sulla stessa barca, tutti della stessa razza ma i cattivi sfortunatamente sempre ai posti di comando". La domanda è a bruciapelo: fatemi Presidente del Consiglio e vi dirò come fare. Sono un saltimbanco, ma se non si risolvono i problemi del terzo mondo, se non si riducono le differenze di ricchezza tra Toronto e Lagos, è a rischio il benessere di tutti».
Il suo primo disco fu un flop, per avere un’altra occasione venne a Roma a suonare per strada di fronte alla Rai con tamburello e armonica.
«È il meccanismo perverso della musica. Non farti cadere le braccia con le sue belle canzoncine era stato schifato, e allora arrivarono i pezzi punk, di protesta, scritti e suonati in un modo isterico, schizofrenico, ed era il 1973. Il punk angloamericano è arrivato nel ’77. In quegli anni eravamo molto amici di Fabrizio De André, a lui piaceva che noi fossimo un gruppo di ragazzi di un cortile di Bagnoli e non avessimo appresso discografici o manager, anche lui era sempre a disagio con l’industria discografica. Il fattore fondamentale è proprio che io vivevo in un cortile cosmopolita, c’erano operai come mio padre e geometri, periti industriali, ingegneri anche di altre regioni italiane, dai 14 anni siamo cresciuti svincolati dai pregiudizi e dai luoghi comuni del campanilismo. Da uomo del Sud sono istintivamente portato a difendere il Sud in generale, anche in Europa la divisione tra paesi buoni e cattivi è sempre ai danni del Sud».
Allora si sentiva più un punk rocker o un cantautore?
«Tra me e i cantautori la differenza era l’ironia e l’autoironia costante. E poi la provenienza da Bagnoli, contro i luoghi comuni, le frasi fatte e l’arroganza del potere. Io arrivo a ironizzare sulla figura del cantautore con una canzone che termina con la frase "in culo a tutti quanti"».
In quel periodo ai live venivate processati, lei al Palasport di Pesaro scese dal palco e iniziò una scazzottata con i contestatori.
«La nostra fortuna è che non avevamo manager, venivamo dal disagio, dal sud, dalla schizofrenia di una città come Napoli… non accettavamo il dialogo con chi si arrogava il diritto di salvare il buonsenso e la morale. E quando arrivavano questi cosiddetti salvatori della patria imbavagliati, noi difendevamo il palco e l’impianto che avevamo comprato con i soldi guadagnati: agli attacchi violenti rispondevamo con la violenza. Pensavano di trovare una superstar e trovavano un pazzo più scalmanato di loro».
Spesso si dimentica che nel 1980 lei è stato il primo a riempire lo stadio San Siro tra gli artisti italiani.
«Nel luglio dell’80 io e miei amici del cortile azzardammo l’impresa di fare 15 stadi di seguito. Per tutto il mese, suonavamo ogni due giorni: a Torino con 40 mila persone, allo stadio San Paolo di Napoli 40 mila, a Marassi 30 mila, e poi Udine, Massa Carrara, Pescara, l’ultimo fu quello di San Siro. Tutto ciò però lascia il tempo che trova, perché non conta ciò che è vero, conta ciò che i giornali evidenziano».