È un momento difficile, soprattutto per la musica dal vivo.
«Continuiamo a vivere una situazione di disagio kafkiana che non avremmo mai potuto immaginare, una situazione spettrale. Noi apparteniamo a quelle generazioni che la guerra non l’hanno mai vista, solo spettacolarizzata al cinema o nei telegiornali. I componenti di quella parte della famiglia umana che latitudinalmente hanno assunto senso di responsabilità nel panorama mondiale hanno capito che la terza guerra mondiale sarebbe stata la distruzione. Ciò a cui assistiamo non è dunque una guerra mondiale ma qualcosa di più infido, ottenebra i cervelli, distrugge l’anima».
Nel libro parla dell’umanità come famiglia umana, un’unica razza.
«Un’unica razza che si è diversificata apparentemente nello spostamento latitudinale. È un tema che ho sviluppato nel mio album del 2015 Pronti a salpare e nella mostra "In cammino", una serie di quadri che hanno tutti per soggetto la dignità dei "vu cumprà" sulle nostre spiagge. Questa complementarità tra il musicista, il sociologo e l’urbanista per me c’è dalla prima ora, da quando ho scritto canzoni come Salviamo il salvabile , Arrivano i buoni , Ma che bella città , Uno buono , che poi era lo sfottò al Presidente della Repubblica di allora, quando evidentemente ancora si poteva».
Parlando di immigrazione, come risolverebbe il problema degli sbarchi?
«In Girogirotondo canto: "tutti sulla stessa barca, tutti della stessa razza ma i cattivi sfortunatamente sempre ai posti di comando". La domanda è a bruciapelo: fatemi Presidente del Consiglio e vi dirò come fare. Sono un saltimbanco, ma se non si risolvono i problemi del terzo mondo, se non si riducono le differenze di ricchezza tra Toronto e Lagos, è a rischio il benessere di tutti».
Il suo primo disco fu un flop, per avere un’altra occasione venne a Roma a suonare per strada di fronte alla Rai con tamburello e armonica.
«È il meccanismo perverso della musica. Non farti cadere le braccia con le sue belle canzoncine era stato schifato, e allora arrivarono i pezzi punk, di protesta, scritti e suonati in un modo isterico, schizofrenico, ed era il 1973. Il punk angloamericano è arrivato nel ’77. In quegli anni eravamo molto amici di Fabrizio De André, a lui piaceva che noi fossimo un gruppo di ragazzi di un cortile di Bagnoli e non avessimo appresso discografici o manager, anche lui era sempre a disagio con l’industria discografica. Il fattore fondamentale è proprio che io vivevo in un cortile cosmopolita, c’erano operai come mio padre e geometri, periti industriali, ingegneri anche di altre regioni italiane, dai 14 anni siamo cresciuti svincolati dai pregiudizi e dai luoghi comuni del campanilismo. Da uomo del Sud sono istintivamente portato a difendere il Sud in generale, anche in Europa la divisione tra paesi buoni e cattivi è sempre ai danni del Sud».
Allora si sentiva più un punk rocker o un cantautore?
«Tra me e i cantautori la differenza era l’ironia e l’autoironia costante. E poi la provenienza da Bagnoli, contro i luoghi comuni, le frasi fatte e l’arroganza del potere. Io arrivo a ironizzare sulla figura del cantautore con una canzone che termina con la frase "in culo a tutti quanti"».
In quel periodo ai live venivate processati, lei al Palasport di Pesaro scese dal palco e iniziò una scazzottata con i contestatori.
«La nostra fortuna è che non avevamo manager, venivamo dal disagio, dal sud, dalla schizofrenia di una città come Napoli… non accettavamo il dialogo con chi si arrogava il diritto di salvare il buonsenso e la morale. E quando arrivavano questi cosiddetti salvatori della patria imbavagliati, noi difendevamo il palco e l’impianto che avevamo comprato con i soldi guadagnati: agli attacchi violenti rispondevamo con la violenza. Pensavano di trovare una superstar e trovavano un pazzo più scalmanato di loro».
Spesso si dimentica che nel 1980 lei è stato il primo a riempire lo stadio San Siro tra gli artisti italiani.
«Nel luglio dell’80 io e miei amici del cortile azzardammo l’impresa di fare 15 stadi di seguito. Per tutto il mese, suonavamo ogni due giorni: a Torino con 40 mila persone, allo stadio San Paolo di Napoli 40 mila, a Marassi 30 mila, e poi Udine, Massa Carrara, Pescara, l’ultimo fu quello di San Siro. Tutto ciò però lascia il tempo che trova, perché non conta ciò che è vero, conta ciò che i giornali evidenziano».