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 2020  agosto 19 Mercoledì calendario

La perizia che prevedeva il flop di Arcelor Mittal

L’implosione di Ilva nelle mani di Arcelor Mittal era già scritta. Fin dal giugno 2017. Sarebbe bastato leggere la “Sintesi dei piani industriali e criteri di valutazione” di Carlo Mapelli, consulente per i commissari a Taranto, per capire dove rischiava di finire la palla.
Il docente del Politecnico di Milano, tra i più esperti in Italia di siderurgia, oggi nel board di Arvedi che all’epoca faceva parte della cordata opposta a Mittal, aveva scritto quel che poteva succedere, in un documento ufficiale di cui Repubblica è entrata in possesso. Ma la sua previsione non fu ascoltata: anzi, gli costò il rinnovo dell’incarico. A Mapelli era stato chiesto di comparare le due offerte rivali: quella centrata su Arcelor e quella rivale, sull’asse Jindal- Cdp. Una disamina, raccolta in 13 pagine di perizia, che i tre commissari governativi – Corrado Carrubba, Piero Gnudi, Enrico Laghi – compresero bene. Tanto che chiesero a Mapelli di riformularla. Con un po’ di “rewording”, parola inglese che come foglia di fico doveva coprire incongruenze del piano industriale dei franco-indiani.Mapelli, un tecnico poco avvezzo agli abbellimenti, specie se contrastano i dati, non “riformulò": così fu lasciato inerte fino al dicembre 2017, quando il suo incarico non fu rinnovato, unico tra i consulenti strategici di Ilva. Pochi giorni dopo quella perizia, i tre commissari e il ministro Carlo Calenda sceglievano Arcelor Mittal premiando soprattutto la parte economica: Mittal offriva di più (1,8 miliardi di euro) e prometteva di ristrutturare l’impianto salvaguardando i 10 mila occupati.
A tre anni data, quel piano è stato riscritto, prevedendo esuberi per la metà di loro e livelli di produzione e redditività che tratteggiano una situazione compromessa, chiunque sarà il futuro proprietario. Arcelor non paga il fitto, è morosa per 40 milioni con i fornitori dell’indotto e cerca di districarsi per evitare da una parte la penale da mezzo miliardo, dall’altra che l’impianto non finisca a concorrenti pericolosi.
«L’offerta di Am Investco non evidenzia gli investimenti per estendere la vita dell’altoforno 2, la cui assenza genera lacune produttive di circa 2 milioni di tonnellate l’anno», si leggeva nella Sintesi di Mapelli. Oppure: «Il documento non indica risorse per installare forni per produrre acciai di elevata qualità (come quelli per l’industria automobilistica)», pertanto il piano «fa dipendere Ilva fino al 30% da semilavorati di terzi, schiacciando la redditività». A tutte queste forniture da spedire a Taranto, tra l’altro, «il piano non dedica alcuna attenzione all’interazione tra aspetti ambientali e gestione logistica». Le carenze di produzione autoctona erano stimate, dalla perizia, «comportare un esubero di circa 2.000 persone in Ilva Taranto rispetto a quanto indicato» dal piano di Am Investco: e un’ulteriore riduzione della forza lavoro tra 1.800 e 2.000 persone era prevista (da Mapelli) a fronte dell’investimento da 45 milioni in tre anni per ricostruire l’Altoforno 1, insufficiente e giudicato «non in linea con il suo rifacimento nell’arco di quattro o cinque mesi». Anche sul fronte della sostenibilità ambientale l’offerta vincitrice era giudicata al ribasso: «Si basa sull’uso del carbone, escludendo il gas e proponendo tecnologie a uno stadio di sperimentazione assai precoce o con spesa energetica elevata», oltre al fatto che «non ci sono interventi migliorativi rispetto alle soglie massime previste» di emissione. Infine, si puntava tutto, anche per l’incasso dei certificati bianchi, sull’abbattimento della Co2: «Un aspetto importante, ma che non ha effetto sulla diminuzione di gran parte dei fattori inquinanti pericolosi e di allarme sanitario/sociale derivanti dall’uso del carbone».
La cordata AcciaItalia, invece, era giudicata più plausibile e coerente per obiettivi industriali, commerciali e d’impiego, oltre al fatto che puntava sul modello ibrido per arrivare ai forni elettrici alimentati dal gas naturale. A guidarla c’era Lucia Morselli, oggi passata dall’altra parte, diventando ad di Ilva. Fu lei, con Cdp, a decidere di offrire “solo” 1,2 miliardi. E il governo non permise, perché non lo prevedeva il bando, che l’offerta fosse pareggiata con quella dei vincitori.