la Repubblica, 19 agosto 2020
Il business dei capelli in Nigeria
Se fa freddo: ciocche lunghe, sciolte e spesse. Se è umido: un bel bob a taglio medio. Le donne nigeriane fanno spallucce alle rivendicazioni delle femministe afro che denunciano un asservimento agli ideali occidentali di bellezza e negli ultimi anni hanno consegnato al loro Paese il primato del mercato mondiale di parrucche ed extension.
A Lagos, racconta il settimanale britannico Economist, le donne apprezzano la varietà della provenienza e scelgono le parrucche secondo le loro caratteristiche: le ciocche brasiliane sono apprezzate per lucentezza e durata, quelle vietnamite, per il sinuoso movimento, le mongole perché facile da arricciare. E tra quelle amate anche quelle italiane: sono eleganti e senza odori. A guidare la moda sono Vip, star e influencer, che fanno bella mostra sui loro profili social di lunghe chiome ondulate e in movimento o di ciocche stirate con la piastra alla moda degli Anni ’60.
Ma dietro a questo mercato in crescita esponenziale c’è un mondo sommerso di sfruttamento e inquinamento. La maggior parte dei capelli che raggiunge l’Africa arriva dalla Cina, dove vengono smistati e trattati capelli di tutta l’Asia, la regione che è il maggiore esportatore mondiale. Solo nel 2018 la Nigeria ha importato oltre 3.600 tonnellate di capelli: umani, animali e sintetici. Se solo la metà fossero di provenienza umana, si tratterebbe delle capigliature di dieci milioni di persone.
Ma non è tutto oro quello che luccica. Francesca Boni, della piattaforma ecosostenible “Il vestito verde” nutre dubbi e paure sulla moda delle parrucche: «Sono due i problemi: lo sfruttamento religioso e l’abuso attraverso i rapimenti». Boni infatti sostiene che spesso le donne asiatiche donano i capelli come dono religioso. Salvo poi vederseli sottrarre per essere venduti. E sempre in Asia, le donne dai bei capelli lunghi vengono rapite, addormentate e nascoste per tagliare loro la chioma. «Da non dimenticare poi che i capelli sintetici producono inquinamento da microplastica, e vengono ingeriti dai pesci».
La domanda è talmente alta che è impossibile monitorare l’eticità e la conformità alla legge delle aziende che li producono. Anche perché spesso ad essere coinvolti sono Paesi non democratici. Il quarto esportatore mondiale di capelli, ad esempio, è il Myanmar. Nay Lin, commerciante di capelli nella ex capitale, Yangon, ha raccontato all’ Economis t che capisce al volo quando l’economia subisce flessioni, perché le donne vendono i loro capelli. A Nord di Yangon, a Pyawbwe, detta anche Hair City, gli agricoltori invece di cipolle e peperoncini, raccolgono boli di gatto: masse compresse fatte di saliva e cibo non digerito. Insieme a capelli presi da pettini usati e dagli scarichi dei bagni diventano parrucche da rivendere all’estero. A Lagos lo status di una donna di questi tempi lo definisce il capello: setoso e luminoso sei ricca, sintetico e crespo non te la passi un granché bene. Ma tante donne di origini africane non sono d’accordo: è sempre più frequente vedere donne nere e africane sulle cover di magazine europei o americani, splendenti nei loro look nature. E non è solo una moda del momento, ma una rivendicazione della proprie origini e della propria identità.