19 agosto 2020
In morte di Cesare Romiti
Giuliano Ferrara, Il Foglio
Che fosse simpatico non si può dire, e compiacere non era il suo mestiere, ma certo Cesare Romiti (1923-2020) era un tipo tosto, squadrato, una marionetta vispa intessuta di fili d’acciaio, sapeva come fare e come picchiare, sprimacciava e rassettava l’azienda il comando la politica con abilità manipolatoria indiscussa, seppe funzionare come strumento della Provvidenza e della famiglia Agnelli anche nell’arena della lotta di classe e della sua ultima manifestazione novecentesca, la lotta alla Fiat in epoca di terrorismo dispiegato. Aveva anche altre caratteristiche importanti. Era un romano in terra straniera (Torino, poi Milano nella regione di cui era re il siciliano Cuccia), e le sue idiosincrasie lo salvarono, lui molto mondano e anche chiassoso nella sua umanità e personalità socievole, da compromessi di stile che sarebbero risultati pacchiani, detestava quasi tutti e liquidava gli intermediari con cinismo spietato, appunto, da legionario disperso in una guerra senza prigionieri. Aveva un’attitudine benevola verso chi gli serviva e lo serviva, in particolare i giornalisti, ma era solo il condimento della trippa finanziaria applicata all’industria manifatturiera e all’editoria. Seppe ascendere imperterrito contro l’avventuroso De Benedetti e molti altri pretendenti che divoravano capretti e maiali portati alla corte di Telemaco dal porcaro Eumeo, e seppe anche discendere, garantitosi una serena lunga e attiva vecchiaia, quando le cose si misero male per lui e la famiglia.
Il suo capolavoro fu l’aver capito qualcosa che la vecchia guardia gloriosa del sindacalismo cameralavorista e Fiom di Torino sapeva perfettamente ma nascondeva a sé stessa: le Bierre erano in fabbrica, erano organizzate e vigili tra le avanguardie militanti della Fiat Mirafiori e degli altri stabilimenti, non si comportavano come un partito segreto ma come un partito armato capace di dispiegare la sua potenza nei reparti, e dunque potevano essere sfidate e battute solo in una logica di emergenza e di forza.
Con l’occasione, e questo fu la marcia dei quarantamila o quanti volete che fossero, per Romiti era possibile ripristinare una misura minima di legge e ordine, sopra tutto dopo i licenziamenti dei 61 capi interni del terrorismo e le manifestazioni di solidarietà di sindacati e Dario Fo al Palazzetto dello Sport. Così, con i licenziamenti successivi allo sfondamento e due mesi di blocco della produzione e del lavoro, frantumò l’ultima vecchia tradizione sindacale e politica degli operai torinesi, le ubbie sul nuovo modo di organizzare il lavoro, il controllo dal basso della grande fabbrica meccanizzata da parte di quelli che allora erano chiamati gli sfruttati. Non si poteva contrastare il potere proprietario e gerarchico del capitalismo mentre le fabbriche venivano incendiate, i capi gambizzati o uccisi o inquadrati con le bandiere rosse alla testa di cortei violenti, mentre nella città fornace dei processi alle Bierre, dello spavento civile tra i quadri, i giornalisti, gli intellettuali, i borghesi e i comunisti, lì era possibile la grande rivincita e la ripresa in mano delle redini di un’azienda umiliata e prostrata da disprezzo e violenza organizzata.
Si è poi dipanata la leggenda degli anni duri di Romiti alla Fiat, la solita balla del capitano di ventura isolato che sfida i leoni, ma furono anni durissimi per lui come per tutti, il gestore dell’Avvocato raccolse la vecchia bandiera del produttivismo e dell’alleanza tra produttori nel momento in cui i capi del movimento operaio l’avevano ammainata, non fu Maramaldo perché rischiò eppure uccise un uomo morto. I primi passi nel cielo del potere questo romano di destino e di peso li compì in una nuvola securitaria, compariva e spariva nei luoghi di decisione pubblica, dove il Pci aveva conquistato spazio e influenza, con la rude e prepotente agilità di una stella cometa del nuovo comando, in anni segnati dalla rivoluzione thatcheriana e dal decisionismo reaganiano. Riconferì all’industria leader e alla famiglia regnante quell’aura onnipotente, alla Vittorio Valletta, che si era sparsa e offuscata nelle generose e un po’ folli divagazioni dell’Avvocato quando fu eletto presidente della Confindustria e intortato da Lama nel famigerato accordo sul punto unico di contingenza.
La storia e le storie hanno un loro percorso di continuità che i destini personali e le corrispondenti immagini suggellano in modo spesso equivoco. Ma in questo caso tutto è chiaro. Sergio Marchionne ha reinventato la Fiat e le relazioni industriali, che è il nome contemporaneo edulcorato della lotta di classe, ma non avrebbe avuto niente da reinventare se Romiti non l’avesse preservata dal peggio, con le buone e con le cattive. Qualcosa in fondo a tipi come Romiti deve anche un Mario Draghi, che ha tenuto un discorso magistrale brillante e speranzoso nel giorno in cui Romiti è morto, e aveva stampata in faccia la vistosa alterità culturale di un tecnocrate e Grand Commis de l’État del nuovo secolo, un protagonista in tocco e toga del sistema europeo di consenso e di amministrazione della moneta e del lavoro, un profilo lontano lontano dalla maschera di ferro del manager del secolo scorso.
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Valerio Castronovo, Il Sole 24 Ore
Più che alle modalità con cui il manager romano, proveniente dal settore delle Partecipazioni statali, giunse dal 1976 a occuparsi della gestione finanziaria della Fiat, in quanto fu di fatto Enrico Cuccia a guidarne l’azione passo dopo passo per quasi un quarto di secolo dalla cabina di Mediobanca, il nome di Cesare Romiti è rimasto legato, nell’opinione comune, alla svolta cruciale avvenuta nel campo delle relazioni industriali con la famosa Marcia dei quarantamila avvenuta a Torino il 14 ottobre 1980, che pose fine al blocco in Fiat di ogni attività, proclamato su iniziativa della Cgil (con l’appoggio del Pci di Enrico Berlinguer) in seguito al licenziamento di oltre 14mila dipendenti deciso dal Gruppo torinese in seguito ai gravi contraccolpi della crisi petrolifera allora in corso.
In realtà, non fu lui a ideare la manifestazione dei quadri intermedi e degli impiegati che sfilò per le vie del capoluogo subalpino fin sotto al palazzo del Municipio per chiedere la rimozione dei presidii che impedivano, da 35 giorni, l’accesso agli stabilimenti, bensì il capo del personale, Carlo Callieri, di concerto con il leader dei sindacalisti autonomi Luigi Arisio, alla testa di un gruppo di capireparto.
Quella mattina Romiti si trovava a Roma per cercare una difficile soluzione di compromesso e, quando giunse, durante il suo incontro con il leader delle tre centrali sindacali, la notizia di quanto stava succedendo a Torino, fu Luciano Lama a indurre Pierre Carniti a mettere da parte l’ipotesi, da lui ventilata d’impulso, di reagire, organizzando una contro-manifestazione che mobilitasse il doppio di dimostranti, e a negoziare quindi un accordo che scongiurasse, tanto per il sindacato che per l’azienda, un salto nel buio, come quello che portò alla messa in cassa integrazione di 22mila dipendenti della Fiat.
È vero che successivamente il peggioramento della congiuntura, dovuto alla stagflazione, che per di più venne a coincidere con la fase culminante del terrorismo, non fu certamente tale da agevolare un progressivo ripristino sia di normali rapporti contrattuali nelle fabbriche che il miglioramento dei livelli occupazionali. Ma quel che ha suscitato un interrogativo di fondo sull’operato di Romiti è stato il fatto, che mentre seguì un’accorta politica di risanamento finanziario, non adottò un’adeguata strategia in linea con le nuove direttrici emerse sul versante tecnologico e nell’organizzazione del lavoro nel corso della seconda metà degli anni Ottanta.
Il ruolo preminente che Romiti giunse a detenere in pratica nell’ambito della Fiat, grazie all’indiscussa e persistente fiducia in lui riposta da Mediobanca, che aveva già indotto a suo tempo Carlo De Benedetti a ritirarsi dalla Fiat, e poi costretto Umberto Agnelli a doversi fare da parte, comportò infine anche l’allontanamento nel 1988 di un manager come Vittorio Ghidella che, già progettista di alcuni modelli di gran successo, avrebbe avuto tutti i numeri per condurre il Gruppo torinese all’approdo, per tempo, alle sponde del post-fordismo e a dargli modo così di reggere la sfida della globalizzazione.
Toccò pertanto, come sappiamo, a Sergio Marchionne il compito, in quanto cooptato in extremis da Umberto Agnelli, di assicurare il rilancio dal 2004 della Fiat.
Più che alle modalità con cui il manager romano, proveniente dal settore delle Partecipazioni statali, giunse dal 1976 a occuparsi della gestione finanziaria della Fiat, in quanto fu di fatto Enrico Cuccia a guidarne l’azione passo dopo passo per quasi un quarto di secolo dalla cabina di Mediobanca, il nome di Cesare Romiti è rimasto legato, nell’opinione comune, alla svolta cruciale avvenuta nel campo delle relazioni industriali con la famosa Marcia dei quarantamila avvenuta a Torino il 14 ottobre 1980, che pose fine al blocco in Fiat di ogni attività, proclamato su iniziativa della Cgil (con l’appoggio del Pci di Enrico Berlinguer) in seguito al licenziamento di oltre 14mila dipendenti deciso dal Gruppo torinese in seguito ai gravi contraccolpi della crisi petrolifera allora in corso.
In realtà, non fu lui a ideare la manifestazione dei quadri intermedi e degli impiegati che sfilò per le vie del capoluogo subalpino fin sotto al palazzo del Municipio per chiedere la rimozione dei presidii che impedivano, da 35 giorni, l’accesso agli stabilimenti, bensì il capo del personale, Carlo Callieri, di concerto con il leader dei sindacalisti autonomi Luigi Arisio, alla testa di un gruppo di capireparto.
Quella mattina Romiti si trovava a Roma per cercare una difficile soluzione di compromesso e, quando giunse, durante il suo incontro con il leader delle tre centrali sindacali, la notizia di quanto stava succedendo a Torino, fu Luciano Lama a indurre Pierre Carniti a mettere da parte l’ipotesi, da lui ventilata d’impulso, di reagire, organizzando una contro-manifestazione che mobilitasse il doppio di dimostranti, e a negoziare quindi un accordo che scongiurasse, tanto per il sindacato che per l’azienda, un salto nel buio, come quello che portò alla messa in cassa integrazione di 22mila dipendenti della Fiat.
È vero che successivamente il peggioramento della congiuntura, dovuto alla stagflazione, che per di più venne a coincidere con la fase culminante del terrorismo, non fu certamente tale da agevolare un progressivo ripristino sia di normali rapporti contrattuali nelle fabbriche che il miglioramento dei livelli occupazionali. Ma quel che ha suscitato un interrogativo di fondo sull’operato di Romiti è stato il fatto, che mentre seguì un’accorta politica di risanamento finanziario, non adottò un’adeguata strategia in linea con le nuove direttrici emerse sul versante tecnologico e nell’organizzazione del lavoro nel corso della seconda metà degli anni Ottanta.
Il ruolo preminente che Romiti giunse a detenere in pratica nell’ambito della Fiat, grazie all’indiscussa e persistente fiducia in lui riposta da Mediobanca, che aveva già indotto a suo tempo Carlo De Benedetti a ritirarsi dalla Fiat, e poi costretto Umberto Agnelli a doversi fare da parte, comportò infine anche l’allontanamento nel 1988 di un manager come Vittorio Ghidella che, già progettista di alcuni modelli di gran successo, avrebbe avuto tutti i numeri per condurre il Gruppo torinese all’approdo, per tempo, alle sponde del post-fordismo e a dargli modo così di reggere la sfida della globalizzazione.
Toccò pertanto, come sappiamo, a Sergio Marchionne il compito, in quanto cooptato in extremis da Umberto Agnelli, di assicurare il rilancio dal 2004 della Fiat.
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Paolo Bricco, Il Sole 24 Ore
Cesare Romiti, classe 1923, è stato uno degli archetipi della storia italiana. Per il percorso nel cuore nella Fiat, la principale Impresa-Stato dell’Italia del Novecento. E per il suo essersi trasformato – nella rappresentazione della vita pubblica – in una personalità paradigmatica grazie alla caratura e all’intensità, alla forza e alla durezza del suo potere.
Romiti si è trovato – mille volte – ai crocevia di un Paese in cui il potere non è mai univoco, ma esiste in dimensioni mutevoli e molteplici ed è sempre ai confini fra tanti mondi: l’industria e la finanza, la politica e l’editoria, la geopolitica e i circoli internazionali riservati. In questo, lui ha rappresentato la norma italiana.
Ma Romiti ha costituito anche l’eccezione italiana. In un Paese in cui il potere spesso si trasmette e non si conquista e le carriere si ereditano e non si costruiscono, è infatti partito da condizioni molto umili. È di Roma. È il secondo di tre fratelli. È figlio di un impiegato delle Poste che muore a 47 anni. Si diploma in ragioneria e si laurea in economia studiando la sera e lavorando di giorno. Nessuno lo ricorda mai. Ma, a 24 anni, Romiti è assunto al Gruppo Bombrini Parodi Delfino. Questa impresa, specializzata in produzioni militari, è nel radar delle strutture di sicurezza occidentali: italiane, ma soprattutto americane. Qui si forma una classe manageriale attenta alle logiche dell’industria e del mercato e al senso della diplomazia e degli equilibri, alle cose visibili e alle cose invisibili. Romiti, da direttore finanziario, lavora con Mario Schimberni: il futuro presidente della Montedison è responsabile dell’amministrazione e del controllo di gestione. Alla fusione con la Snia Viscosa, nel 1968, Romiti diventa direttore generale e così conosce Enrico Cuccia, il fondatore di Mediobanca. Nel 1970 è amministratore delegato di Alitalia. Nel 1973 è all’Italstat.
Nel 1974, nel pieno della crisi petrolifera che sta dissestando i conti del gruppo Fiat, Cuccia lo segnala come direttore centrale di finanza, amministrazione e controllo. Nel 1976 diventa amministratore delegato, insieme a Umberto Agnelli e a Carlo De Benedetti, che ha una posizione di preminenza fra i tre, ma che lascia l’incarico dopo cento giorni. Da allora, si verifica l’ascesa di Romiti in Fiat e nell’economia e nella società italiane.
Quattro anni dopo, la Fiat è nel caos. Nessuno riesce a fronteggiare l’anarchia e a ristabilire l’ordine negli impianti. Il 5 settembre 1980 l’azienda mette in cassintegrazione per diciotto mesi 24mila dipendenti. L’11 settembre annuncia 14.469 licenziamenti. A questa decisione – in una Fiat in cui Romiti ha in mano ogni leva strategica, gestionale e “disciplinare” – corrispondono lo sciopero e i picchettaggi ai cancelli. Il 26 settembre Enrico Berlinguer arriva a Torino per esprimere ai lavoratori l’appoggio del Partito Comunista. I giorni diventano folli. I sindacati non cedono. Non lo fa nemmeno l’azienda che, per voce di Romiti, definisce i licenziamenti essenziali per non fallire. Il 14 ottobre 1980 la marcia dei quarantamila porta in strada i quadri della Fiat e i dirigenti di Corso Marconi. La manifestazione è organizzata dal capo dei quadri aziendali, Luigi Arisio, e ha l’appoggio tecnico – nella prima linea manageriale – di Carlo Callieri e di Cesare Annibaldi. Romiti sovraintende all’operazione ed è pronto a trasformarla in risultato politico. Tre giorni dopo la marcia dei quarantamila, la dirigenza della Fiat trova – da una posizione di forza – un punto di equilibrio con i sindacati confederali, che riconoscono l’insostenibilità della situazione: conferma la cassintegrazione a zero ore per 22mila dipendenti, ma ritira i licenziamenti.
Nel 1988, dopo uno scontro di potere cruento, gli Agnelli rinunciano a nominare numero uno del gruppo Vittorio Ghidella. Ghidella è l’uomo della Fiat Uno. L’ultimo ingegnere ad avere costruito la leadership della Fiat sull’auto europea. Uscito Ghidella, Romiti è il dominus assoluto. Spesso prevale sugli Agnelli grazie al legame con Mediobanca, che lo colloca appena un gradino sotto l’Avvocato e comunque sopra il Dottor Umberto, ormai impegnato nello sviluppo delle finanziarie di famiglia. Romiti determina la strategia degli anni 90: la conglomerata che investe in altri settori rispetto all’auto. Una scelta che – indirizzando risorse verso i servizi, a scapito della manifattura – impedirà alla Fiat di effettuare gli imponenti cicli di investimenti industriali e tecnologici che, in un decennio così strategico, faranno invece le case automobilistiche tedesche e asiatiche.
La centralità di Cesare Romiti è sintetizzata dal valore della sua buonuscita che, fra soldi e partecipazioni, ammonta nel 1998 a 105 miliardi di lire per i 24 anni di attività e a 99 miliardi di lire per il patto di non concorrenza. Guida Gemina (una sua quota fa parte della liquidazione) che controlla Rizzoli Corriere della Sera (sarà presidente dal 1998 al 2004, diventando poi presidente onorario) e la società di costruzioni Impregilo. Nel 2005 entra nel patto di sindacato degli Aeroporti di Roma.
Poco alla volta Romiti perde presa sul capitalismo italiano. La sua famiglia – oltre a lui, i due figli Maurizio e Piergiorgio – è estromessa prima da Gemina, poi da Impregilo e quindi da Aeroporti di Roma. Il più importante manager industriale italiano, dunque, non ce la farà a trasformarsi in imprenditore.
La forza di Romiti – anche nella sua dimensione psicologicamente egemonica e fisicamente rocciosa – è rappresentata dall’immagine di lui che, il giorno della sepoltura di Gianni Agnelli (il 26 gennaio 2003), trascorre nel duomo di Torino tutta la messa in piedi – dritto come un fuso e imponente come una colonna – mentre tutti sono seduti sulle panche. A dieci anni dalla morte di Gianni Agnelli, Romiti ha detto al «Corriere della Sera»: «In chiesa lui faceva così. Ricordo una domenica in cui andai a trovarlo a Villar Perosa. Mi portò a messa. La moglie con i figli erano davanti. Lui era in fondo, e rimase in piedi per l’intera funzione: “Romiti, rimanga in piedi con me”. Gliene chiesi il motivo. Rispose che aveva avuto un’educazione cattolica, e quello era il modo per dimostrare, se non la fede, la fedeltà. Restare in piedi al suo funerale era il mio modo di rendergli omaggio».
Sulla sua ascesa e sul suo declino, rimangono le parole dette al Sole 24 Ore il 15 febbraio 2009: «Può darsi che un bravo manager non sia anche un bravo padrone. Può darsi. Ben vengano tutte le critiche. Ma io non ho mai accettato quello che i cosiddetti padroni hanno accettato in tanti anni di vita industriale del Paese. L’essere accomodanti, cosa che ha portato gente di qualità mediocre a occupare posti importanti. Ma ha anche portato il Paese nelle condizioni disperate in cui si trova ora».
Cesare Romiti: duro e quasi brutale, efficace ma vero, fino in fondo.
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Ezio Mauro, la Repubblica
Qual era il segreto del potere di Cesare Romiti? Esercitato per vent’anni alla Fiat, coltivato prima nel settore pubblico all’Alitalia e all’Italstat, prorogato infine con la guida della Rcs come editore, è stato soprattutto comando, più che leadership. Questa è stata la scelta vincente, dettata dall’istinto, che ha sempre spinto Romiti ad assicurarsi il ruolo di capo azienda - con la totale responsabilità delle scelte però riconoscendo nello stesso tempo due autorità di riferimento che lo hanno guidato come due stelle fisse nel cielo mutevole del capitalismo d’impresa italiano: Gianni Agnelli ed Enrico Cuccia.
In questo difficile esercizio d’equilibrio tra l’autonomia e la soggezione si muove tutta la chimica misteriosa della sovranità romitiana, un manager delegato che ha operato per un periodo lunghissimo come plenipotenziario della più grande impresa privata italiana. Le dimensioni della Fiat, la sua attitudine al comando, l’investitura permanente dell’Avvocato e del patron di Mediobanca che lo hanno sempre accompagnato nella sua avventura lo hanno via via proiettato in un ruolo pubblico da protagonista, dopo che per anni aveva preferito gestire il potere dal suo ufficio all’ottavo piano di corso Marconi: dove il sabato mattina (almeno una volta al mese) era previsto un colloquio a tu per tu con Agnelli, nel silenzio dei corridoi vuoti e delle stanze senza segretarie: nemmeno Margherita, la sua fedelissima.
Così sono nate la sfida al terrorismo che lambiva le fabbriche, coi 61 licenziamenti, il braccio di ferro con il sindacato con il lungo sciopero di Mirafiori, la marcia del 40 mila che porta in piazza per la prima volta i quadri Fiat e segna un cambio di stagione all’interno del mondo del lavoro. Luciano Lama, in quei giorni, battezzerà in Romiti «un estremista dell’impresa», Giampaolo Pansa lo presenterà in un libro-intervista come «un cartesiano rozzo», Schimberni che lo conosceva da ragazzo lo definirà «uno sfrontato pieno di grinta».
In realtà era ancora una volta l’istinto che lo guidava più che la teoria, da uomo di mano, mentre la strategia veniva messa a fuoco dai suoi collaboratori di primo piano come Cesare Annibaldi e Carlo Callieri.
La capacità di scegliere, l’azzardo nel decidere, l’esposizione in prima persona lo trasformano pubblicamente in un “falco” industriale. Ma la vera metamorfosi è già avvenuta, trasformandolo da uomo dei conti a capitano d’impresa, attraverso una serie di battaglie interne ovattate dalla mistica prudente dell’azienda, dissimulate nel perimetro squadrato di Torino con le strade che sembrano un gioco di specchi, che mentre riflette nasconde.
Prima c’è la rottura del triumvirato con Umberto Agnelli e Carlo De Benedetti, che uscirà dalla Fiat dopo soli tre mesi, con una lunghissima coda di frizioni pubbliche. Dopo trent’anni, proprio Romiti cercherà una riconciliazione personale siglata da un pranzo romano e da un brindisi: «Litigavamo costantemente, e non sapevamo neanche più perché». Più di lunga durata e mai sanata l’inimicizia con Umberto, che era anche la contesa tra due ambienti, due anime Fiat, due filiere di uomini, combattuta a colpi di epurazioni, innesti, vendette e persino dossier, con l’Avvocato arbitro riluttante. Infine la partita per il dopo, giocata direttamente faccia a faccia con Agnelli a cui Romiti al momento dell’uscita dalla Fiat aveva chiesto la guida di Rcs, che ottenne soltanto al termine di un lungo braccio di ferro.
Ma il vero punto di contrasto tra la famiglia e il suo manager è nel 1993, quando Cuccia fa saltare il piano di successione previsto dall’Avvocato, che intende ritirarsi insieme con Romiti per lasciare la presidenza a Umberto. «Noi siamo una coppia - assicurava in quei mesi Romiti - , insieme abbiamo lavorato, insieme ce ne andiamo». Ma Mediobanca ha altri piani: sfruttando le difficoltà dell’azienda, lancia un mega aumento di capitale che su richiesta della banche creditrici proroga gli incarichi dell’Avvocato e di Romiti per tre anni. Ufficialmente è un’operazione finanziaria che congela il vertice Fiat: in realtà è una manovra di potere che lo terremota. Un vero e proprio golpe bianco che spezza la linea di successione tra l’Avvocato e suo fratello, incrinando il diritto naturale di esercizio del potere da parte della famiglia, con un’amputazione dinastica che consegna a Mediobanca il futuro dell’azienda. E l’uomo di Mediobanca è Romiti che senza cambiare poltrona da manager scelto dalla famiglia diventa amministratore delegato per rappresentanza diretta del nuovo potere, di cui è in realtà il fiduciario.
Praticamente gli Agnelli regnavano, ma non governavano più. Avevano perso la Fiat, con l’Avvocato che subì il diktat di Milano come un’umiliazione a Torino, convinto di essere lo strumento necessitato di un’ingiustizia che sbarrava la strada all’ascesa di Umberto. Contò a voce alta, a casa, facendo chiudere le porte della sala, gli uomini del vertice su cui poteva davvero contare e non arrivò a finire le dita di una mano. Allora paragonò Cuccia a Totò Riina. Con Romiti che intanto non perdeva tempo e telefonava ai dirigenti della galassia aziendale: «Avete capito bene cos’è successo? Da oggi nessuno potrà più dire che la Fiat è del signor Giovanni Agnelli».
E tuttavia la coppia non arrivò alla rottura. Romiti si accontentò dei dividendi mondani del nuovo potere che esercitava, recuperando i salotti romani dopo anni di torinesità mimetica, in cui si trovava a suo agio. E l’Avvocato aveva un solo scopo, quello di riconquistare l’azienda alla famiglia, usando l’unica dote che nessuno gli riconosceva: la pazienza.
Aspettò, catturato e attratto come sempre dall’esercizio della forza che Romiti sprigionava e che lui non cercava in se stesso: ma che aveva conosciuto da vicino in Valletta, e che giudicava indispensabile per guidare un gigante come la Fiat. Questa fascinazione per la forza altrui lo portò a scusare o sottovalutare metodi di gestione disinvolti e sbagliati, che infine costarono a Romiti la condanna per finanziamento illecito ai partiti, trascinando la Fiat nella bufera di Tangentopoli.
La ragnatela romitiana si stava sciogliendo. Quando l’Avvocato lasciò la presidenza ai 75 anni, al momento di andarsene chiese che quel limite fosse fissato per statuto, dopo di lui. E infatti anche Romiti, arrivato il momento, lasciò la presidenza a Paolo Fresco, scelto dalla famiglia. Quel giorno Agnelli, giunto a Roma, presentò il nuovo chairman, poi tornò a parlare dell’uscita di Romiti con due ospiti: «Dite la verità - concluse - non credevate che sarebbe successo». «È vero, Avvocato - fu la risposta -: ma anche lei stamattina prima di partire ha aperto la porta dell’ufficio di Romiti e ha guardato dentro, per sincerarsi che fosse vuoto... ».
***
Ferruccio de Bortoli, Corriere della Sera
Cesare Romiti ha segnato la storia del Paese più volte. Vi ha impresso un suo sigillo personale. Lo ha fatto con la durezza del manager determinato, coraggioso, spregiudicato se necessario, ma anche con il tratto gentile di un uomo aperto, curioso, che non aveva mai accettato l’idea di poter invecchiare. Se n’è andato a 97 anni. Indro Montanelli, che fu suo amico, diceva che si comincia a morire dai piedi o dalla testa. «Costretto, preferirei la prima ipotesi» commentava il celebre giornalista alzando lo sguardo al cielo. Montanelli scrisse persino, nell’ultima notte, il suo necrologio. Romiti negli ultimi giorni era come una candela che si spegneva, dilatandosi. Era come se fosse tornato bambino, chiedendo della mamma e del papà. Lui che aveva fatto della sua imponenza fisica quasi la rappresentazione teatrale della managerialità, il marchio di una risolutezza rocciosa, non si piegava all’idea che le gambe non potessero più sorreggerlo, che il corpo non rispondesse più ai suoi comandi. «Ormai, dovrebbe andare in giro appoggiandosi sempre a un bastone — diceva già qualche anno fa il figlio Maurizio — ma non lo accetterà mai, sai com’è fatto». Cesare, il «Dottore» negli anni della Fiat, aveva una presenza statuaria che imprimeva di per sé soggezione. Lui era quello. Forte, duro. Ben piantato per terra.
Quando morì l’avvocato Agnelli — con il quale condivise la lunga stagione alla guida di un gruppo un tempo glorioso e torinese — rimase in piedi per tutta la cerimonia funebre suscitando anche la garbata protesta della signora che era seduta dietro di lui. Non una signora qualsiasi. Era la moglie di Paolo Fresco, il manager della General Electric che lo aveva sostituito come presidente del Lingotto al compimento dei 75 anni. Un limite di età che lui, Romiti, avrebbe voluto cancellare con un tratto di penna se solo ne avesse avuto il potere. Diceva, con una punta di malizia, del suo elegante (e provvidenziale per le sorti dell’azienda) successore venuto dagli Stati Uniti: «Ha fatto una carriera eccezionale fino ad arrivare ad essere il numero due della General Electric». L’immagine nel Duomo di Torino gremito e silenzioso per l’ultimo omaggio al suo sovrano repubblicano mi è rimasta impressa come fosse l’ultima scena di una storia, quella della Fiat, ma non solo, che inesorabilmente si avviava all’epilogo. Romiti, solitario e altero, se ne stava in piedi. Instancabile. Tutti lo guardavano chiedendosi il perché di quel gesto («Era una consuetudine militare che condividevo con l’Avvocato» dirà in seguito). Era il 2003. Romiti non si rassegnò mai al ruolo del sopravvissuto, del testimone che vive solo di ricordi, ingigantendoli magari. O di rimpianti e rancori. All’epoca dell’addio all’Avvocato, era ancora presidente della Rcs, mio editore. Rimarrà alla guida della fondazione Italia-Cina, da lui fortemente voluta con l’intuizione di quale sarebbe stato il ruolo di Pechino anche quando la globalizzazione era agli albori, fin oltre i 90 anni. Ha continuato a dividersi tra Roma e Milano fino a qualche mese fa. A leggere, chiedere, informarsi con una curiosità quasi infantile. Ad aiutare chi ne aveva bisogno. Ma dei suoi gesti di beneficenza non voleva che se ne parlasse. L’ultima volta che andai a trovarlo, nella sua casa milanese, era imprigionato su una sedia a rotelle, della quale avrebbe voluto sbarazzarsi subito con un gesto dei suoi. Di solito mi accompagnava alla porta, passetto dopo passetto. Con militare senso della disciplina, grande fatica e un certo mio imbarazzo. Mi congedò restando seduto. Rassegnato all’immobilità. E mi sembrò un addio.
Romiti arrivò alla Fiat negli anni della crisi economica successiva allo choc petrolifero, del crollo del mercato dell’auto. E la risollevò. Veniva dalle partecipazioni statali, ovvero dall’impresa pubblica che poi avrebbe (anche ingiustamente) avversato. La Mediobanca di Enrico Cuccia ne impose il nome agli Agnelli. Con l’Avvocato si formò un sodalizio fondato sul reciproco rispetto e una doverosa distanza (si diedero sempre del lei). Tra i tanti ricordi dei primi anni da amministratore delegato di Corso Marconi (il trasferimento al Lingotto fu successivo) ne peschiamo uno solo. Il viaggio da Torino a Milano per chiedere l’aiuto delle banche. E un collaboratore con accento torinese che mostra tutta la sua sorpresa e una punta di vergogna. «Dottore, non l’abbiamo mai fatto». Piccolo o grande mondo antico. Se Agnelli distillava il suo pensiero su tutto, dalla politica al calcio, con arguzia e classe, Romiti interpretava con la massima determinazione il suo ruolo di capo azienda. All’occorrenza rude, prepotente. Conosceva la politica, i mille intrighi della Capitale nella quale era nato e della quale si sentiva orgogliosamente figlio (gli chiesero più volte di fare il sindaco). Una leadership naturale. Il numero uno della Fiat divenne presto il punto di riferimento — e successivamente l’ariete — di una imprenditoria intimidita dal potere del sindacato e dall’invadenza della politica (e pronta a a finanziarla se necessario) che verrà portata alla luce da Mani Pulite. Un’inchiesta che non risparmiò Torino. E lo coinvolse. Un capitalismo senza capitali, con famiglie imprenditoriali troppo deboli — e troppo a lungo protette da Mediobanca — si contrapponeva allo Stato imprenditore di cui erano azionisti i partiti. Ma ne reclamava le commesse, ne pietiva persino i favori. Romiti fu il capitano di ventura di questo esercito, a volte disperso e impaurito, al quale restituì, è il caso di dirlo, un po’ di carattere e dignità, pur continuando a coltivare tutte le relazioni di sottogoverno che servivano.
Negli anni Settanta e Ottanta, il terrorismo seminava morti quotidiane. Sembrava imbattibile. I brigatisti agivano nelle fabbriche, negli uffici, persino negli ospedali. Il sindacato non era ancora in grado di isolarli. La Fiat di Romiti prese il coraggio di fare 61 licenziamenti. In un clima da guerra civile altri voltarono lo sguardo. Temevano rappresaglie, che ci furono. Nell’ottobre del 1980, al culmine della lunga vertenza Fiat che paralizzò gli stabilimenti per oltre un mese, inflisse ai sindacati la più cocente delle sconfitte. E l’Italia cambiò. La marcia dei quarantamila (ma erano di meno) che chiedevano di tornare al lavoro, scosse il Paese. L’autorità tornava in fabbrica. Romiti raccontò poi che Pierre Carniti, segretario della Cisl, indispettito, gli disse: «Va bene, l’accordo lo scriva lei». Una manifestazione che il sindacato e il Partito comunista (Enrico Berlinguer davanti ai cancelli di Mirafiori non escluse l’occupazione) mai avrebbero immaginato sarebbe sfilata silenziosa per le vie di Torino. Spontanea? «Diciamo spintanea» mi confidò anni dopo. Governò il gruppo Fiat incontrastato. Opponendosi a Umberto Agnelli, che cordialmente detestava, cacciando Vittorio Ghidella, che di auto ne capiva più di lui. Per lunghi anni Confindustria (la Fiat ne uscì nell’era Marchionne) fu dominata da Torino. E Romiti ne decise le sorti anche quando non era più al Lingotto. Per esempio quando si produsse in una campagna a favore di Antonio D’Amato e contro Carlo Callieri che a Torino collaborò con lui per lunghi anni, soprattutto sul fronte del contrasto alle infiltrazioni terroristiche. Come editore della Rizzoli-Corriere della Ser a fu rispettoso dell’autonomia del giornale. Era orgoglioso di esserne il presidente. Non condivise alcune posizioni del giornale e mie personali. L’euro non gli piaceva, per esempio. Con Silvio Berlusconi giocò di fioretto non trascurando di blandirlo quando serviva. Felice però che qualcuno ne contenesse l’esuberanza caratteriale e la smania di potere. La politica gli sarebbe piaciuta. Molto. Un po’ di invidia per il Cavaliere — che lo considerò sempre solo un manager seppur grande — veniva celata con una certa fatica. Del resto Berlusconi confessò che sul comodino teneva solo la foto dell’Avvocato. Un sottile derby di fioretto tra primedonne con una grande e ostentata passione comune per l’altro sesso. Errori ne commise. Con la generosa buonuscita della Fiat tentò di creare una sua dinastia industriale, portando a lavorare con sé i figli Maurizio e Piergiorgio. Non andò bene. Dovette lasciare Torino a 75 anni. Una scelta dolorosa. L’avvocato diceva che se anche la Chiesa, nella sua storia millenaria, si era data delle regole ferree sull’età, l’industria non poteva fare eccezioni. Romiti ebbe numerosi amici tra gli uomini di Chiesa. Ne coglieva il fascino (Gianfranco Ravasi e Carlo Maria Martini) ma confessava di non capirne le dinamiche di potere. Una volta, trovandosi in Polonia, chiese di vedere il primate. Il cardinale Wyszynski però non c’era. Gli dissero: «Se vuole incontrare il suo sostituto, un certo Wojtyla?». Romiti disse di no, non voleva perdere tempo. Non se lo perdonò mai.
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Aldo Cazzullo, Corriere della Sera
Dal terrazzo della sua casa romana la vista sulla Galleria Borghese, gli alberi del parco e la città a perdita d’occhio era impressionante. Fu davanti a quello spettacolo — quasi per farsi perdonare — che confidò: «Guardi che io ho fatto la fame. La fame vera. E per fame ho rubato. Non è che mi mancavano la carne e il pesce; mi mancavano il pane e la pasta. Papà era morto nel 1941, mamma dovette crescere da sola me, mio fratello e mia sorella. Roma era piena di soldati tedeschi. Arrivò la voce che alla stazione Tiburtina c’era un carico di farina incustodito. Me la feci di corsa da San Giovanni. Riempii un sacco, contendendolo ad altri affamati come me. A casa quella farina fu accolta come manna».
Cesare Romiti era un duro. Di quelli che campano novantasette anni perché interpretano la vita come un combattimento, tutti i giorni. Ma non era uno forte con i deboli e debole con i forti. Piegò la classe operaia di Mirafiori, che aveva dietro la Cgil e il partito comunista, al tempo in cui i terroristi rossi azzoppavano un caporeparto alla settimana. Ma prese a male parole pure Romano Prodi, allora presidente dell’Iri, che voleva vendere l’Alfa alla Ford: gli entrò nello studio e lo riempì di improperi. L’Alfa finì alla Fiat.
Come manager, salvò il più grande gruppo industriale italiano, che all’epoca aveva oltre 200 mila lavoratori. Come imprenditore, fallì (non solo per colpa sua) nell’ambizione di fondare una dinastia. Per due volte gli chiesi — quella volta a Roma, e prima ancora a Cetona, nel giorno del suo novantesimo compleanno — quale fosse la causa di quel fallimento. Lui rispose sempre con le stesse parole: «Come capo azienda non guardavo in faccia nessuno. Come imprenditore ho commesso errori di ingenuità. Avrei dovuto essere più duro. Lo sono stato quando i denari non erano miei; quando erano i miei non ho saputo esserlo. Un tempo negli affari contava più il cuore della mente, più l’istinto dei calcoli; ora non più. Il mio mondo era quello. Oggi è diverso».
Di Gianni Agnelli parlava sempre benissimo, anche in privato. Lo descriveva come uomo di grande intelligenza, sia pure poco interessato alla gestione: «L’Avvocato era molto diverso da come è stato descritto. Era considerato un principe; in realtà aveva avuto una vita molto dura. Quasi non conobbe suo padre. Perse da giovane pure la madre, che adorava. Certo, fece la dolce vita. Ma poi ebbe il coraggio di andare da Valletta, l’uomo che aveva reso grande la Fiat, a dirgli: ora tocca a me».
Eppure — proprio com’era accaduto prima a Vittorio Valletta, e come sarebbe accaduto dopo a Sergio Marchionne — ci fu un momento in cui Romiti si sentì un po’ il padrone della Fiat, grazie anche al rapporto fortissimo con Enrico Cuccia. Ma anche lui, come gli altri (in circostanze non paragonabili), aveva dovuto cedere il passo alla famiglia, sia pure al prezzo di una liquidazione leggendaria, che comprendeva anche il Corriere, di cui fu un buon editore, negli anni della prima direzione di Ferruccio de Bortoli e di quella di Stefano Folli.
Con l’Avvocato strinse un rapporto anche di confidenza personale, pur dandogli sempre del lei. Ne era forse un po’ geloso, nel senso che ebbe relazioni difficili con tutti gli uomini che gli erano vicini; o forse erano loro a essere un po’ gelosi di Romiti. Fatto sta che cacciò Vittorio Ghidella (e prima ancora aveva gioito per l’estromissione di Carlo De Benedetti), mal sopportò Luca di Montezemolo, si scontrò con Umberto Agnelli e non amava neppure un uomo amabile come Gianluigi Gabetti.
Se prendeva un caffè al bar con Agnelli, era Romiti a pagare; l’Avvocato spesso non aveva soldi in tasca. Ma se Agnelli prendeva l’ascensore con un’altra persona, le cedeva il passo; Romiti saliva e usciva per primo. Ovviamente, gli obbediva. Ma talora faceva di testa sua. L’Avvocato ad esempio gli aveva suggerito di evitare il salotto torinese di Gustavo Rol, il sensitivo: ne era terrorizzato da quando a Venezia aveva sentito Rol raccomandare a un amico comune di non prendere l’aereo per Roma; l’aereo cadde, l’amico morì. Da Rol, però, Romiti andava: «Mi fece scegliere un foglio bianco tra tanti, su cui apparve un testo pieno di informazioni riservate e di consigli sulla Fiat. Conoscevo la grafia di Valletta. Era senza dubbio la sua».
Alla memoria di Valletta, Romiti era devoto, mentre non amava Marchionne: «Ha avuto in mente fin dall’inizio di portare la Fiat in America, ed è stato molto abile a farlo». Da romanista accompagnava volentieri Agnelli agli allenamenti della Juve a Villar Perosa. «Una volta avvertirono Trapattoni che un calciatore si era fatto male e stava piangendo. Il Trap si infuriò: “Che vergogna! Un giocatore della Juve non piange!”». Per aver organizzato la marcia dei 40 mila, che risolse la battaglia della Fiat e chiuse gli anni Settanta, l’Avvocato non gli disse mai grazie. Il suo modo di dimostrargli apprezzamento fu telefonargli dal Quirinale e passargli l’ex presidente Giuseppe Saragat, che parlando con Romiti si commosse: «Finalmente ho rivisto per strada i volti degli operai e dei quadri Fiat che conosco!».
Quando Edoardo Agnelli si suicidò, lui chiamò l’Avvocato dalla Cina, dove andava spesso. La conversazione fu breve. «Avvocato, che dire a un padre che ha perso un figlio?». «Appunto, Romiti. Mi dica piuttosto cosa è andato a fare in Cina».
Al funerale di Gianni Agnelli, nel Duomo di Torino, rimase in piedi tutto il tempo. Spiegò che l’Avvocato faceva così, quando andava a messa a Villar Perosa; non per fede, ma per rispetto della fede (chiosò Gabetti che l’Avvocato stava in piedi in fondo alla chiesa, non in mezzo, ostruendo la vista agli altri).
Dei politici non aveva grande stima. Craxi e Martelli — che chiamava «quell’altro, quello bello» — li trovava arroganti. Berlusconi non gli è mai piaciuto molto. Salvini non gli piaceva per niente. Aveva simpatia per la Meloni: «Le ho parlato l’altro giorno, in sottofondo sentivo la sua bambina che piangeva…». Renzi? «Ha talento e ambizione. Troppa, l’ambizione». Però non giudicava male i grillini: «Sono una forza di cambiamento, all’evidenza il Paese ne sentiva il bisogno».
Da giovane per mantenersi aveva fatto lavori umili, di cui non parlava volentieri. «Un giorno dovetti ricopiare centinaia di documenti, tutti uguali. Non avevano ancora inventato la fotocopiatrice. La fotocopiatrice ero io». Il padre era stato cacciato dalle Poste, in quanto ostile al regime. Lui fu balilla e avanguardista: «Quando sei ragazzo e ti annunciano che siamo entrati ad Addis Abeba, non capisci che tutto finirà nel disastro». A differenza di Franca Valeri, inorridì davanti a piazzale Loreto. Ma raccontava il dopoguerra con la stessa identica frase della grande attrice: «Era un’Italia in cui tutto pareva possibile».
Non a caso negli ultimi tempi diceva che il Paese andava ricostruito, proprio come dopo il conflitto mondiale. La sua ossessione era il lavoro. «Dobbiamo mettere al lavoro i nostri giovani, in modo che possano costruirsi una famiglia e una vita. Ma dobbiamo anche trovare lavoro ai cinquantenni. Non possono mica passare quarant’anni da esodati!».
Adorava le donne, spesso ricambiato. Un po’ impettito, tanto da sembrare a volte tronfio, in alcune circostanze si inteneriva. Ammirava la regina Elisabetta e da ragazzo era amico della sora Lella Fabrizi, la sorella di Aldo. L’Avvocato si divertiva a punzecchiarlo sull’argomento. Una volta gli passò una lettera anonima: «Gliela faccio leggere solo perché la riguarda, ma non le dia importanza, sapesse quante me ne arrivano». La lettera parlava appunto di storie d’amore. A chiedergli, rispondeva: «Guardi fuori (eravamo a Cetona). Vede gli alberi, le colline, le torri? Ecco, la cosa più bella di tutte queste, la meraviglia del Creato, è la donna. Io ho avuto una moglie perfetta, che purtroppo è mancata e di cui ho molta nostalgia. Ma le donne mi sono sempre piaciute. Perché sono migliori di noi. Sanno ascoltare. Non ti tradiscono. E se proprio ti tradiscono, porterai comunque sempre dentro di te la dolcezza che ti hanno dato».