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 2020  agosto 19 Mercoledì calendario

Come vanno gli americani nel calcio in Europa

Chissà quale sarà il prossimo passo di Dan Friedkin per dimostrare la sua romanità acquisita, dopo avere battezzato “Romulus and Remus Investments LLC” il veicolo di controllo della nuova società giallorossa. Il consiglio però è quello di evitare di utilizzare in qualsiasi modo lo slogan “veni, vidi, vici”. È un motto che male si attaglia alle proprietà americane nel calcio del XXI secolo. Come non ricordare la promessa di Pallotta di portare a casa un trofeo entro cinque anni? E anche se ci spostiamo nella ben più opulenta Inghilterra del pallone, i robusti investimenti dei tycoon conquistati dal fascino del football all’europea non hanno immediatamente prodotto grandi risultati. Sportivamente parlando, s’intende. Perché invece, da un punto di vista economico e finanziario, gli esiti sono stati tutti positivi se non eccezionali.


Serve tempo
Proprio la storia degli americani d’Inghilterra racconta però che bisogna avere pazienza. Di certo, lì le società sono finite in buone mani: garantite sia la competitività, con o senza successi, immediati e non, sia la buona salute e le prospettive dei club. Adesso a brillare più di tutti è il Liverpool: una Champions e una Premier League strameritate. Ma quanto è stata lunga l’attesa: il primo titolo è arrivato nove anni dopo l’ingresso di Tom Werner e dei suoi soci in Fenway Sports Group, proprietari pure dei Boston Red Sox di baseball, che subentrarono ad altri due americani, Hicks e Gillett, rimasti tre anni senza successi e nel fastidio generale. L’Arsenal, invece, da quando dal 2011 è finito nelle mani di Stan Kroenke, che possiede squadre in tutti gli sport pro Usa e i Colorado Rapids in Mls, si è dovuto accontentare di qualche FA Cup, mentre le prestazioni in campionato e in Europa, dopo l’addio di Wenger, sono peggiorate. Più complessa la storia del Manchester United: la famiglia dei gioiellieri Glazer, entrata nel 2005 e odiata dalla tifoseria perché vissuta come invasione straniera e per l’operazione di leverage buy out con cui rilevò il club (caricando sui conti della società i debiti contratti per l’acquisto), riuscì inizialmente a cavalcare la scia delle vittorie dell’era Ferguson, per poi, dopo l’addio di Sir Alex, dimostrare di essere molto abile, soltanto però a rafforzare la struttura societaria. Oggi lo United è un colosso che si regge su piedi tutt’altro che d’argilla nonostante gli insuccessi sportivi. In Inghilterra sono di proprietà americana anche il Crystal Palace, che è in Premier League, e il Fulham, che in Premier ci è appena ritornato.


In Francia
Chiuso per le regole calcistiche in vigore il mercato tedesco, inaccessibili per ragioni analoghe i grandi club spagnoli, gli investitori Usa ora mostrano sempre più interesse per il calcio francese e italiano. In Francia, tuttavia, i gruppi che hanno rilevato Olympique Marsiglia e Bordeaux destano molte perplessità: o per i loro pregressi guai con la giustizia (McCourt ora boss dell’Ol) o per la loro opacità (il Bordeaux è di un paio di fondi abbastanza misteriosi).


Da noi
Dell’Italia sappiamo tutto: dell’instancabile andirivieni di Joe Tacopina, apripista delle operazioni di quasi tutti i suoi connazionali; delle problematiche dell’era Pallotta, dopo la resa dei predecessori (cordata DiBenedetto); della gestione oculata del Bologna di Saputo; delle ambizioni, già frenate, di Commisso a Firenze; delle manovre, talvolta un po’ spericolate, del Fondo Elliott, che in realtà governa il Milan più dall’Inghilterra che dagli Usa.


I fondi
Già, i fondi. Non solo quelli sovrani dei paesi arabi. Ma quelli sparsi, per ragioni fiscali e non solo, in giro in tutto il mondo e che spesso hanno radici americane: forse sono loro il futuro di un calcio che già condizionano con partecipazioni di minoranza in vari club (dalla Juventus all’Atletico Madrid, dall’Ajax allo stesso Manchester United). Proprietari occulti, che magari non hanno diritto di voto. Come Red Bull nel Lipsia…