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 2020  agosto 18 Martedì calendario

Ritratto di Virginia Raggi

Essendo venuta al mondo (della politica-spettacolo) tra gli ingranaggi di una fotocopiatrice – quella dello studio Sammarco, disgraziatamente per un periodo associato Previti – era fatale che Virginia Raggi, avrebbe stampato una seconda volta la sua candidatura sui muri crollanti di Roma, città eterna in tutto, nella magnificenza e nel danno.
Era la lenta primavera del 2016. Tra i molti squali in avvicinamento per addentare i resti galleggianti del Campidoglio appena sgomberato dalla sinistra fratricida, comparve lei, che aveva il fisico di un pesciolino rosso, l’incedere titubante di una ragazza per bene in giacca e pantaloni, i capelli a tendina dei troppo timidi, un ingannevole sguardo spaesato. Aveva 37 anni, famiglia benestante, un figlio, un marito quasi ex. Veniva da tre anni di Consiglio comunale, in quota Cinque Stelle, ma non la conosceva nessuno. Fu quel dettaglio omesso nel curriculum – avere lavorato dieci anni prima come apprendista in quello studio legale – ad averle capovolto il destino, illuminandole il carattere d’acciaio e la ribalta. La sproporzione degli attacchi subiti, dai Palazzi e dai palazzinari, Caltagirone in testa, con giornali, radio, tv, opinionisti e social al seguito, ebbe l’effetto opposto: Cenerentola contro Golia. E dunque trasformando la vittima di quell’assalto nella titolare di una agguerrita riscossa. Sua, dei Cinque Stelle e di Roma capitale. Che la destra del sindaco Alemanno aveva trasformato in una grottesca parentopoli in camicia nera. E la sinistra del sindaco Ignazio Marino nel solito Vietnam di litigi, interdizioni e reciproci dispetti. Risultato: una vittoria prodigiosa al ballottaggio con il 67 per cento dei voti, il doppio di Roberto Giachetti, un crisantemo prestato alla politica, spendendo due lire per la campagna elettorale e una sola parola d’ordine: “Il vento sta cambiando”.
Sembrava l’inizio di un trionfo: onestà, trasparenza, acqua pubblica, trasporto pubblico, aria pulita, ciclo dei rifiuti. Con la bella trovata di costruire una funivia tra due periferie, Casalotti e Battistini, idea alpina già balenata a Veltroni, ma va bene lo stesso. Era il piccolo paradiso di tutti i programmi, ma stavolta con una classe dirigente nuova di zecca e Virginia a pattinarci sopra.
Fu l’opposto. Nove mesi di guerriglia per formare la giunta. Undici assessori assunti e licenziati, un paio di consulenti arrestati, tre responsabili del bilancio dimissionari, la Corte dei Conti con le mani nei capelli, la Procura di Roma con il dito sul grilletto. I giornali tambureggianti: incompetente, incompetente, incompetente! Il traffico fuori controllo, 254 ore perse ogni anno dagli automobilisti negli ingorghi, un record tra le capitali del mondo, dopo Bogotà. Gli autobus in fiamme. Quelli appena acquistati, fuori norma. I parchi e i giardini abbandonati alle sterpaglie e all’assenteismo cronico. Gli alberi crollanti. I rifiuti accatastati sui marciapiedi, le discariche chiuse, i compattatori fuori uso, mentre l’Ama, l’azienda municipalizzata invece di bruciare rifiuti, bruciava 7 consigli di amministrazione in 4 anni, passando da una inchiesta all’altra, da un arresto all’altro. Con i cittadini furiosi che pagano il doppio delle tasse, 800 milioni di euro l’anno, per avere la città di sempre, allagata a ogni pioggia e i cassonetti galleggianti. In quanto ai pattini, meglio scordarseli, visto il paesaggio di asfalti traforati da buche, voragini, rattoppi, marciapiedi sbriciolati, automobili accatastate in doppia fila, cinghiali in transito.
Virginia sembrava sempre sul punto di essere travolta. E a forza di puntualizzare difese, finiva per adottare la vecchia giostra dello scaricabarile: i bilanci in rosso li abbiamo ereditati, è colpa della corruzione di prima, della cattiva amministrazione di sempre, dello Stato che ci abbandona. I rifiuti sono colpa della Regione che non ci aiuta e dei dipendenti fantasma. Il traffico c’è sempre stato, non ho la bacchetta magica. Le buche vengono dai cattivi appalti. I cattivi appalti dalle tangenti. Siamo troppo grandi, sei volte Milano. Eccetera. Come se scoprisse tutto per la prima volta. Benvenuta nella realtà dei romani cinici, indisciplinati, ingovernabili: meglio tardi che mai.
È solo quando la smette di fare la piccola fiammiferaia che se la cava meglio. Per esempio il giorno in cui dice di no alle Olimpiadi del 2024 volute dagli stessi palazzinari e politici – tutti laureati in competenza – che ai Mondiali di nuoto del 2009 hanno truccato appalti, rubato il rubabile, costruito piscine fuori misura. E invece dice sì al nuovo stadio della Roma, ma con un decente taglio di cemento e centri commerciali, visto che ci sono già 200 mila case sfitta e i Centri commerciali sono diventati una trentina, quasi tutti spuntati nell’era molto competente di Veltroni e Rutelli sindaci. Oppure quando sovrintende l’abbattimento di 8 ville abusive dei Casamonica al Quadraro. E fa la guerra alle famiglie dei Fascina e degli Spada che controllano lo spaccio e l’usura.
Quando prova a sgomberare i camerati abusivi di Casapound e va difendere la famiglia bosniaca che a Casal Bruciato ha ottenuto regolarmente una casa popolare, ma vive nel terrore dell’assedio razzista. O quando l’inchiesta Buzzi-Carminati, svela quanto sia grande il buco nero del mondo di mezzo, dove si saldano gli interessi dalla destra malavitosa, con la sinistra della pessima cooperazione. E risale la china quando finalmente, invece di fare la vittima, comincia a riaprire le stazioni centrali della metropolitana chiuse per mesi, a rifare le strade, a ripulire i giardini e la macchina amministrativa, a salvare dal fallimento l’azienda trasporti.
Forse persuasa dal vuoto del Covid – che ha spalancato la bellezza di Roma come una tabula rasa da riempire di idee e di rimedi – ha deciso di chiedere, “a testa alta”, il secondo mandato. Dice: “Mangeremo quello che abbiamo apparecchiato”. Vedremo se stavolta sarà un progetto o una minaccia.