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 2020  agosto 18 Martedì calendario

Ilva, 60 giorni per evitare l’addio a Mittal

Nell’agenda per ora non sono segnati nuovi appuntamenti tra i vertici di ArcelorMittal Italia e gli emissari governativi. Nemmeno in videocall. Mentre le fabbriche del gruppo ex Ilva riaprono cancelli e uffici dopo la pausa ferragostana, la trattativa sul destino di quella che un tempo era la più grande acciaieria d’Europa langue. Almeno apparentemente. Fonti governative fanno notare che in realtà qualcosa si muove: la due diligence su Ami (la società italiana costituita dal colosso mondiale ArcelorMittal per gestire l’Ilva) è partita, Invitalia ha affidato l’incarico agli esperti. A supportare la società del Tesoro guidata da Domenico Arcuri nella valutazione degli asset di Ami saranno gli analisti finanziari di Kpmg. Tornerà ad occuparsi dei bilanci Ilva, come consulente di Arcuri, anche Enrico Laghi, che per anni ha fatto parte della terna dei commissari dell’Ilva in amministrazione straordinaria. Solo quando il loro lavoro sarà terminato si potrà continuare la trattativa sull’ingresso dello Stato in Ami, decidere con quante risorse e quali quote, maggioritarie o minoritarie. Un compito che difficilmente sarà portato a termine prima del 20 settembre, giorno in cui le urne decideranno il nuovo governatore della Regione Puglia. Una coincidenza, forse. O – come sospettano alcuni – una precisa strategia politica. 
Intanto si rincorrono le più disparate ipotesi. Anche la dote di 470 milioni di euro messa a disposizione di Invitalia dal decreto agosto per entrare nel capitale delle società del Mezzogiorno (appunto ArcelorMittal) da alcuni viene letta come il segnale di una prossima nazionalizzazione del gruppo e quindi del fallimento della trattativa con il colosso franco-indiano per la sua permanenza in Italia. Da altri invece viene letta esattamente al contrario: è il mantenimento dell’impegno preso dal governo di entrare nel capitale affianco ad ArcelorMittal per poter rilanciare l’ex Ilva, in chiave più ecosostenibile (l’accordo firmato a marzo con l’azienda prevede l’introduzione di due forni elettrici) e innovativa.
Ovviamente la due diligence è solo un passo. E non è detto che poi si arrivi effettivamente ad un accordo. Anche perché il tempo scorre e non è un dettaglio irrilevante. 
LA POLVERIERA SOCIALE
Come stabilito con l’accordo di marzo, a fine novembre (vale a dire 60 giorni dopo le elezioni di settembre) Ami ha la possibilità di abbandonare la partita pagando una fiches di 500 milioni di euro. Una via di uscita che l’azienda ha nel cassetto, pronta ad utilizzare se il vento dovesse girare nel verso sbagliato. E a quel punto davvero non ci sarebbero altre soluzioni che la nazionalizzazione. Di certo l’Ilva, con i suoi undicimila dipendenti di cui 8.700 solo a Taranto, non può essere chiusa. E di certo la produzione di acciaio per l’Italia è più che strategica. Si può ovviamente discutere sul come produrlo, senza danni per l’ambiente. Ma la completa decarbonizzazione non è tecnicamente un traguardo raggiungibile in tempi brevi. E inoltre se a salvare il gruppo non ci riesce il primo produttore mondiale, viene il dubbio che l’impresa non sia semplice. Per tutti questi motivi sarebbe bene che l’accordo con Mittal andasse in porto. Non a tutti i costi, ovviamente. Al di là delle valutazione patrimonial finanziarie, resta il nodo – essenziale – degli esuberi che l’azienda nel piano industriale post-covid presentato a giugno (bocciato da governo e sindacati) ha quantificato in cinquemila (3.300 degli attuali dipendenti più 1.700 in Ilva as). Sul punto la trattativa è completamente ferma, i sindacati attendono ancora (è di ieri un altro appello al governo) la convocazione. Intanto, l’azienda ha sospeso il pagamento delle rate di affitto al governo, la produzione resta ai minimi storici e si va avanti con gli ammortizzatori sociali: proprio ieri è arrivata la lettera di altre sei settimane di cassa integrazione (causale Covid, quindi a carico dello Stato) per 8.200 dipendenti. E la rabbia monta. Anche tra l’indotto, con i fornitori che lamentano mancati pagamenti per decine di milioni di euro. La politica attende l’esito delle regionali del 20 settembre, ma Taranto nel frattempo rischia di diventare una polveriera sociale.