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 2020  agosto 17 Lunedì calendario

Intervista a Salvatore Esposito



Spaccapietre, unico film italiano, firmato dai fratelli Massimiliano e Gianluca De Serio, alle Giornate degli Autori, Mostra di Venezia. Salvatore Esposito è un operaio che ha perso un occhio lavorando alle cave, la moglie è andata a lavorare nei campi di pomodori e ci ha lasciato la vita, l’uomo fa una promessa al figlio e intraprende un viaggio nell’inferno sotto il sole, in un film che è una fotografia durissima della realtà dei ghetti e del caporalato. Il divo di Gomorra è a Chicago per le ultime riprese della quarta stagione di

Fargo: «Sono arrivato con un volo privato da Londra, i protocolli di lavoro sono rigidi, ci chiedono di non fare uscite esterne, anche se non ci sono divieti». Tornare sul set dopo la quarantena è «una sensazione particolare, tutto è diverso, strano.
Spero di ultimare le riprese ed essere al Lido il 7 settembre con un film di cui sono orgoglioso».
È un progetto in cui ha creduto fin dall’inizio.
«Sì. Ricevo tante sceneggiature, questa mi ha colpito perché credo nel talento dei De Serio e perché era una storia che meritava di essere raccontata. Affronta la tematica sottovalutata della nuova schiavitù, di chi è chiamato a lavorare in condizioni estreme e tra i soprusi, anche se durante il Covid forse c’è stata maggiore tutela per i lavoratori dei campi. È una storia dura, come nel caso di Gomorra e del mio film Veleno, penso che il male vada sempre raccontato e mai celato».
Com’è stato incontrare quel tipo di realtà?
«Nel film cerchiamo di ricostruire le condizioni estreme, il mondo invivibile a cui sono costretti uomini e donne, ma la realtà è dieci volte peggiore; io ho visto ghetti, i campi in cui sono costretti i lavoratori. È insopportabile che nel 2020 le persone siano costrette a vivere in quella situazione dentro un paese cosiddetto civile».
Malgrado il contesto realistico, "Spaccapietre" è una favola nera che racconta anche una vicenda personale dei registi.
«Sì. Volevamo seguire la tragedia dal punto di vista del piccolo Antò, di come suo padre Giuseppe riesca a mantenere una promessa impossibile fatta a lui, anche a costo di un sacrificio. Padre e figlio, anche visivamente, sembrano un tutt’uno, rappresentano il passato e il futuro, e per trovare questo futuro sono costretti ad attraversare quel presente terribile in cui l’uomo cercherà di farsi vendetta ma anche di estirpare quel cancro che ammala la terra e distrugge le persone».
In attesa di vederla a Venezia, com’è questa sua avventura sul set di "Fargo"?
«Un’esperienza meravigliosa di crescita. Prima del Covid sono stato qui sei mesi, mi sono confrontato con registi, autori, colleghi, una macchina enorme. Ho adorato lavorare con Chris Rock, e mi colpisce quanto qui gli attori, non solo i primi nomi, siano presi sul serio. E anche coccolati. A Natale mi è arrivato per regalo dalla produzione un massaggiatore portatile, "dopo il duro lavoro è tempo che ti rilassi"».
Cosa scopriremo del suo personaggio?
«Posso dire poco. È completamente diverso da ciò che ho fatto finora. Una creatura piuttosto particolare, in linea con questa serie divertente nella sua oscurità, con certe sfumature, umane e fisiche, tipiche dei personaggi dei fratelli Coen.
Credo e spero piacerà a molti. Dal 27 settembre si vedrà negli Usa, purtroppo l’emergenza ha fatto saltare le grandi anteprime previste a Los Angeles e New York. Peccato perché volevo conoscere di persona Ethan e Joel Coen».
E poi c’è il ritorno di "Gomorra".
«Ci sentiamo continuamente con Marco D’Amore. Siamo ansiosi di tenere alta l’asticella, di sorprendere ancora e dopo tante stagioni è sempre più difficile. Ce la mettiamo tutta».
Quanto il sodalizio con D’Amore è importante per entrambi?
«Fin dai provini di Gomorra c’è stata un’intesa umana e poi professionale.
Penso che la serie abbia preso una direzione quando ci si è resi conto che tra noi c’era qualcosa di forte, di chimico, che non si può creare con la scrittura ma nasce tra due anime che si incontrano. Abbiamo voglia di coltivare insieme la fortuna di esserci incontrati, finora forse non abbiamo avuto tutto quello che meritavamo».
Pensa anche lei alla regia?
«Per ora sto ancora imparando a fare l’attore. Dieci anni fa lavoravo al McDonald’s, ora giro una serie internazionale, chissà cosa mi aspetta nei prossimi dieci».
Cosa ha imparato nei fast food?
«L’importanza del lavoro di squadra, non sentirsi unici, invincibili. Da manager lì ho imparato a gestire i rapporti con i colleghi e con i clienti.
In fondo gli attori sono psicologi, devono saper decifrare il perché di gesti e parole dei personaggi».
Poi però ha tentato la recitazione.
«Recitazione e calcio sono le mie passioni da bambino, non avevo le doti fisiche e tecniche per giocare, ho coltivato la recitazione. Ho lasciato tutto per lavorare, vengo da una famiglia umile, ma dopo sei anni nel fast food volevo provarci, i miei mi hanno sostenuto negli anni romani, lavoravo alla sicurezza dei locali, al volantinaggio, come cameriere».
Chi ha sempre creduto in lei?
«I miei genitori e da sei anni la mia compagna Paola, che mi aiuta ogni giorno a riflettere e superare la mia impulsività».
E ora cosa vorrebbe?
«Ho già avuto più di quanto mi aspettassi, ora vorrei crescere nel mercato globale. Ho un agente negli Stati Uniti, qui è più facile incontrare registi e produttori: Steven Spielberg, Oliver Stone, Todd Phillips, in Italia invece non ho mai incontrato uno dei registi top. All’estero sono visto e apprezzato come una giovane star internazionale, da noi sono il giovane attore che ha fatto Gomorra e poi "boh, vediamo". Perciò penso che io e D’Amore negli anni non abbiamo ricevuto i giusti meriti, la possibilità di incontro, di essere messi alla prova. Ma fa parte del gioco e del resto non trovo molti progetti italiani che negli ultimi cinque anni abbiano avuto un’esplosione internazionale».