la Repubblica, 17 agosto 2020
L’alleanza tra Putin e Lukashenko
Ci sono due soluzioni possibili alla crisi che scuote la Bielorussia e si è ormai propagata da Minsk, capitale più giovane ed europeizzante, alle altre città e perfino alle campagne dove, secondo un vecchio schema socio- politico, fino a ieri la gente raccoglieva patate e non parlava di politica.
La prima è che la Bielorussia sia l’ultimo passo di un lungo processo di ristrutturazione politica dell’Europa, cominciato 30 anni fa con la caduta del muro di Berlino, e Lukashenko, dopo 26 anni di potere venga abbattuto dalla piazza come accadde a Belgrado per Milosevic o nella Majdan di Kiev per Janukovich. La seconda ipotesi è che la Bielorussia diventi una sorta di anacronistica Corea del Nord ai confini dell’Unione europea e Aleksandr Lukashenko resti davvero “l’ultimo dittatore d’Europa”, governando con la forza della brutalità poliziesca, ma con la debolezza di un’economia che non ha neppure la capacità di nutrire tutti i suoi quasi 10 milioni di abitanti.
La risposta finale a questo interrogativo può darla solo Vladimir Putin. E può anche essere una terza via. Il popolo bielorusso la sua decisione sembra averla già presa. Basta il confronto tra le due manifestazioni di ieri per capire con chi sta la gente: un migliaio scarso di persone alla manifestazione organizzata dal governo e almeno 150mila a quella dei contestatori, radunatesi proprio davanti al monumento celebrativo della vittoria di Stalin (Lukashenko si fa chiamare come lui, “Batka”, padre) con tanto di bandiera sovietica sul pennone. E non solo a Minsk la gente è andata in piazza, ma anche a Brest e a Grodno, mentre le fattorie statali dei un tempo silenti e sottomessi “raccoglitori di patate” sono in sciopero da venerdì.
Ma Putin per ora risponde in modo ambiguo. Gli promette «tutta l’assistenza necessaria», ma in caso di «pressioni esterne», con un richiamo a quel Trattato di sicurezza collettiva, che coinvolge altri quattro Stati ex repubbliche sovietiche (Armenia, Kazakhstan, Kirghizistan e Tajikistan), che risale al 1992 e sembra di difficile applicazione pratica: non siamo più ai tempi del Patto di Varsavia, che schiacciò la “Primavera” di Dubcek in Cecoslovacchia, ma che oggi non esiste più dopo che il crollo dell’impero sovietico ha liberato gli ex satelliti dell’Urss dal giogo di dare un supporto militare all’Armata Rossa. La Nato invece esiste ancora (e ha pure un articolo 5 che prevede aiuto in caso di un Paese membro attaccato) e, secondo Lukashenko, questa sarebbe la “pressione esterna” da invocare perché, dice, ci sono esercitazioni in Polonia e Lituania, con truppe e aerei a 15 minuti dal confine bielorusso.
È molto dubbio che Putin mandi i carri armati a Minsk per salvare l’ultimo monolite pseudo-comunista d’Europa come fece Krusciov nel 1956 a Budapest o Breznev nel 1968 a Praga. Anche se proviene dal Kgb ed è un nostalgico dell’Urss, l’uomo del Cremlino è un fine cultore della Realpolitik. Non può permettersi che la Bielorussia diventi un’altra Ucraina. Ma vuole tenere sulla corda Lukashenko e fargli pagare le piroette di questi ultimi a nni, quando flirtava con l’Occidente in chiave anti- russa. Ancora un mese fa accusava Mosca di complottare contro di lui e di mandare mercenari per influenzare le elezioni. Ora Putin aspetta che Lukashenko vada in ginocchio a implorare aiuto, economico piuttosto che militare, e magari offrirgli in contropartita, su un piatto d’argento, quella federazione tra Russia e Bielorussia, che Putin gli aveva già proposto e lui aveva rifiutato mentre strizzava l’occhio a Bruxelles.
D’altronde Lukashenko non ha molte alternative. Ha costruito il suo falso mito di “padre” benevolo negli anni ‘90 grazie agli aiuti di Mosca, che gli hanno consentito di creare una “command economy” in stile sovietico, che garantiva pieno impiego, buoni salari e stabilità economica. Ma nell’ultimo decennio questo contratto sociale autoritario, che sembrava perfino consentire un dissenso a basso volume e aveva illuso qualcuno in Europa, è crollato perché – proprio per i zig zag dell’uomo forte di Minsk – la Russia gli ha tagliato gli aiuti. Il modello economico di Lukashenko è diventato insostenibile e il disagio sociale è stato esacerbato dalla risposta al Covid 19, che, secondo lui, nella più genuina ricetta sovietica andava combattuto con vodka e saune. Le elezioni, così volgarmente truccate, e la risposta violenta alle manifestazioni hanno colmato la misura.
Putin lo aspettava sulla riva del fiume. Annettere la Bielorussia facendo di Lukashenko un suo proconsole sarebbe una bella rivincita e una piccola, parziale, ma non trascurabile realizzazione del sogno di ricreare l’Unione delle Repubbliche Sovietiche. Se poi arrivasse anche il Donbass ucraino, per ora in mano ai separatisti filo- russi, l’ex ufficiale del Kgb avrebbe fatto bingo.