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 2020  agosto 17 Lunedì calendario

Biografia di Stephen King

L’ho incontrato di persona soltanto due volte, e in entrambi i casi ci ha tenuto a dirmi quanto detestasse l’adattamento cinematografico di Shining realizzato da Stanley Kubrick: «Non c’è niente del mio libro, e il poco che c’è non funziona». I nostri incontri sono avvenuti nella sua Bangor, la cittadina del Maine dove tutto sembra ruotare intorno a lui: persino il tassista che ti accompagna dall’aeroporto chiede se sei lì per Stephen, chiamandolo per nome, come tutti, perché è lui il primo a voler abbattere ogni formalità.
È un uomo imponente, Stephen King, di quasi due metri, con lo sguardo appuntito e il sorriso che difende, anzi blinda, ogni invasione di campo: ci tiene moltissimo a essere padrone del suo spazio e del suo tempo, e può permetterselo dall’alto di un successo editoriale che non ha pari. È impossibile tenere il conto di quanto abbiano venduto i suoi libri, c’è chi dice non meno di 400 milioni di copie, c’è chi sostiene, contando le riedizioni e i tascabili, più del doppio. Al trionfo editoriale va aggiunto quello cinematografico e televisivo: nessun autore, con l’eccezione di Shakespeare, ha avuto un ugual numero di adattamenti a firma di registi di primissima qualità, a cominciare dal detestato Stanley Kubrick, e poi Brian De Palma, David Cronenberg, John Carpenter e due volte Rob Reiner. Per non parlare dei registi che hanno raggiunto i loro migliori risultati lavorando sui suoi testi, come è successo a Taylor Hackford in L’ultima eclissi e Frank Darabont con Le ali della libertà e Il miglio verde. Sono decine e decine i film tratti dai suoi testi, ma i cineasti non individuano nel suo lavoro solo una garanzia commerciale, ma anche due elementi fondamentali per una pellicola di successo: un plot sempre solidissimo e personaggi indimenticabili. Deluso da molti adattamenti, ha diretto qualche film anche lui, compresa una sua versione di Shining che sinceramente non ha lasciato tracce.
A cominciare da Harold Bloom, la critica più titolata per molti anni non lo ha apprezzato, relegandolo alla nicchia dell’autore di genere, ma basterebbero i due elementi citati per sigillarne invece la grandezza, che solo ultimamente comincia a essere celebrata, anche grazie all’apprezzamento caloroso di autrici quali Donna Tartt che ne ha esaltato le qualità letterarie e lo sguardo sul mondo dei bambini. «L’inferno è lastricato di avverbi» sostiene da sempre, e nel nostro primo incontro mi sorprese parlando a lungo di stile, e celebrando gli autori che dicono molto con poche parole: less is more è un proverbio che sposa sino in fondo, come anche il motto show don’t tell.
È nato 73 anni fa a Portland, nel Maine, e la sua infanzia è stata ferita dall’abbandono della famiglia da parte del padre Edwin, che lasciò in miseria la moglie Nellie, Stephen e suo fratello Daniel. Un altro elemento che ne ha segnato la poetica è stato il lavoro della madre, la quale ha dedicato tutta la vita all’assistenza dei malati di mente: la follia, e tutto ciò che alligna nell’anima degli esseri umani, è stata fonte costante di terrore, che ha tentato di esorcizzare nei suoi libri. «Invento l’orrore per abituarmi all’orrore dentro di noi», mi spiegò, raccontandomi un altro episodio centrale della sua crescita: vide un amico d’infanzia finire sotto un treno, e rimase sotto shock per molti giorni, ricordando il viso sorridente un attimo prima della tragedia e poi il corpo maciullato. In quello stesso periodo avvennero due svolte importanti: abbandonò la Chiesa metodista dove lo portava la madre, e scoprì nell’attico di casa un libro di HP Lovecraft, che rilesse decine di volte: «Finalmente mi sono sentito a casa» mi disse con un sorriso pieno di dolore, spiegandomi che continua a credere in Dio, rifiutando tuttavia ogni religione organizzata.
Cominciò a scrivere sin dal tempo della scuola, facendosi notare dai docenti per la straordinaria lucidità di esposizione, le atmosfere piene di angoscia e i personaggi delineati con maestria, scoprendo in quel periodo il lavoro di un altro maestro del genere, Richard Matheson, dal quale ammette di essere stato influenzato: è un lettore avido e attento e ama profondamente la letteratura americana, non solo di genere. Poco dopo la laurea riuscì a vendere il manoscritto di Carrie, che divenne il primo grande successo internazionale, e l’evoluzione narrativa di questo romanzo aiuta a capirne il rapporto con le persone più intime e la capacità di mettersi in discussione: in un primo momento aveva intenzione di scrivere un racconto, ma dopo tre versioni differenti decise di cestinare il manoscritto. Fu la moglie Tabitha a recuperare i fogli dattiloscritti. Dopo averli letti, convinse il marito a riscriverli con un punto di vista femminile: fu quel nuovo punto di vista a rendere il romanzo un classico dell’horror.
Da quel momento il successo crebbe in maniera esponenziale, grazie anche alle trasposizioni cinematografiche, e lui cominciò a diversificare i generi scrivendo gemme quali Stagioni diverse insieme a operazioni più discutibili come la serie Dark Tower, firmando a volte con lo pseudonimo di Richard Bachman o John Swithen, uno dei personaggi di Carrie. Negli anni si è cimentato nei graphic novel, ha scritto un musical e ha collaborato con artisti figurativi, ma nulla lo diverte come esibirsi con la sua rock band della quale fa parte anche la poetessa Mary Karr. «Leggi e scrivi per almeno sei ore al giorno», mi ammonì una volta, «se non riesci a trovare tempo per questo, non aspettarti di diventare un buono scrittore». Ci teneva a spiegare che tutte queste altre attività lo divertono, ma ritiene di essere nato per scrivere e sa che i migliori risultati si raggiungono soltanto con il sacrificio e l’abnegazione. «Non so immaginare la mia esistenza senza la scrittura" ripete spesso, e non è certamente un caso che molti dei suoi protagonisti sono scrittori, come succede in Shining, Le streghe di Salem e Misery non deve morire. «Le cose più importanti sono difficili da esprimere», spiega però con inaspettato disincanto, «perché le parole le diminuiscono».
Gli anni del trionfo commerciale non furono facili: cominciò a consumare alcol e droghe, e solo alla fine degli anni 80 riuscì a liberarsi da ogni dipendenza. «I mostri sono veri come anche i fantasmi», spiegò, «ed esistono dentro di noi: a volte vincono». Nel 1999 venne investito da una macchina, rischiando di morire: fu operato cinque volte in dieci giorni e ne uscì con un profondo trauma psicologico e molte fratture. Ancora oggi zoppica vistosamente, ma appartiene alla leggenda il fatto che abbia acquistato quella macchina per poterla distruggere a martellate. Pochi mesi dopo esser guarito gli venne conferito il National Book Award alla carriera, scatenando una polemica al vetriolo tra estimatori e detrattori, alla quale si sottrasse, rifiutando di replicare anche alle critiche più pesanti - sempre a opera di Bloom, che dichiarò: «Il premio segna un nuovo punto minimo nella cultura odierna».
Convinto liberal, ha combattuto in ogni occasione per la libertà di espressione: quando a seguito della fatwa alcune catene di librerie decisero di ritirare i libri di Salman Rushdie, minacciò che avrebbe ritirato anche i propri bestseller. Ha appoggiato pubblicamente le campagne elettorali di Barack Obama, destinando parallelamente quattro milioni di dollari l’anno in beneficenza, perché è convinto che l’unico modo per combattere il male del mondo sia la generosità. Negli anni anche la moglie Tabitha si è rivelata una scrittrice di qualità, come il figlio Joseph, che si firma Joe Hill, mentre la figlia Naomi è diventata un ministro della Chiesa universalista. Ne parla con orgoglio, e quando riflette sulla propria concezione dell’esistenza dice «la speranza è una bella cosa, forse la più bella di tutte, e nessuna cosa bella muore». Poi, quando pensa a tutto quello che ha fatto dai tempi di Carrie, spiega: «La scrittura non è vita, ma può aiutarti a comprenderla e forse a riconquistarla».