Per essere stato un importante banchiere, non ha mai disdegnato la lettura dei romanzi. Una passione che lo ha protetto dal vento arido dell’economia. E a me viene in mente Balzac. Fu lui, il primo a descrivere ne La Comédie Humaine lo spietato mondo della finanza. Forse solo Marx fu altrettanto impietoso nel raccontare le pulsioni che una banca scatena. Pierluigi Ciocca ascolta e un po’ si sorprende. Gli dico che il suo mestiere non gode di buona fama e lui mi dice che occorre distinguere tra la funzione e la pulsione. Tra l’uso corretto e indispensabile degli strumenti finanziari e la loro torsione speculativa legata a un disegno perlopiù fine a se stesso. A me viene in mente il desiderio di onnipotenza di Nuncingen (il banchiere descritto da Balzac) il cui operato rinvia al lato teologico e al fatto che la banca è come la chiesa: vi si esercita un’altra forma di fede, per un Dio esigente e talvolta cattivello. E penso anche che uomini come Ciocca hanno fatto di tutto per rendere quella chiesa frequentabile. Lui ha pubblicato Ricchi per sempre? (Bollati Boringhieri), una chiara e documentata analisi del nostro paese. Un misto di storia e di economia, di dati e di narrazione, in perfetto equilibrio. Ciocca compirà 80 anni il prossimo anno. È stato tra le figure fondamentali della Banca d’Italia e si è messo volontariamente fuori dai giochi. Gli piace riflettere e scrivere e ci riesce benissimo.
Se non avesse fatto il banchiere?
«Avrei probabilmente insegnato e scritto molto di più. Ci scegliamo un mestiere a volte perché costretti, altre per vocazione. A me non è mai dispiaciuto mettere le mani nei numeri dell’economia e in ciò che essi significano».
"Ricchi per sempre?" è una disamina molto cruda del nostro paese. Poche occasioni sfruttate, più spesso quelle mancate. Eppure siamo diventati potenza industriale, ricca e perfino opulenta. Ora su tutto questo lei ha messo un bel punto interrogativo.
«Era il minimo. Non si può essere sereni. Abbiamo alle spalle venticinque anni di ristagno e tre recessioni. Siamo immersi nella quarta, la più acuta e complessa, provocata dal virus. Si sono spenti i due motori della produttività: gli investimenti e l’innovazione. Il punto interrogativo su come ne usciremo è d’obbligo. Governanti, imprese, società civile in passato hanno battuto un colpo. Ma oggi?».
Lei individua due momenti di grande crescita dell’economia italiana: periodo giolittiano e gli anni del miracolo economico. Cosa ci insegnano quegli episodi?
«Giolitti risanò le finanze, tenne il cambio, creò infrastrutture. Non fu servo dei monopoli e dei loro giornali, sdoganò la dialettica capitale-lavoro. Si modernizzarono le istituzioni e le imprese, sferzate dalla concorrenza, aumentarono investimenti e produttività. Quanto al "miracolo" italiano fu insperato e riconducibile al buon governo (fondato sul compromesso fra cattolici, liberali, social-comunisti); all’imprenditorialità (pungolata dal Mercato comune, dall’Iri e dal sindacato); alla cultura (riaperta al mondo dopo il fascismo); alla Costituzione che fondò migliori istituzioni. Infine agli italiani che seppero lavorare duramente».
Restano due eccezioni. Perché?
«La nostra è, da secoli, una terra di città e di fazioni spesso in contrasto tra loro. Spaccata in due dallo Stato della Chiesa, con il Sud altro dal Nord. Le rivalità insanabili hanno quasi sempre tenuto fuori il compromesso, che pure sarebbe stato necessario. Molti, non capendo, l’hanno definito trasformismo».
Però siamo un paese di trasformisti.
«È vero, ma mentre il compromesso è rinunciare a imporre un solo punto di vista, il trasformismo significa adeguarsi agli interessi dell’avversario, per trarne qualche vantaggio personale. Da un lato c’è il sano realismo, dall’altro il puro opportunismo».
Un economista come giudica e orienta ciò che accade?
«I soli strumenti tecnici non sono sufficienti, perciò occorre una qualche coscienza storica. Chi ignora la storia ha minori probabilità di riuscire come economista. Sir John Hicks ci ha consegnato addirittura una "teoria" della storia economica. Per lui lo storico si occupa del passato nel suo rapporto col presente. L’economista si occupa del presente, quindi del passato e del futuro».
Ma il presente, con la sua impellenza, non costringe a decisioni a volte poco meditate?
«Il rischio c’è. In ogni caso, almeno in teoria, prima viene il problema da affrontare e solo dopo la scelta o la creazione dello strumento per risolverlo. Diceva Joan Robinson: "L’oggi è la frontiera del tempo. Si sposta continuamente in avanti con un passato che si prolunga alle sue spalle"».
Ha conosciuto Joan Robinson?
«Ho avuto il privilegio di seguire i seminari che tenne in tre sere al Balliol College di Oxford sull’economia della Cina di Mao. Era dialetticamente smagliante. Univa alla parola fulminante un uso mirabilmente retorico delle sue bellissime mani. Una donna meravigliosa, economista di rilievo».
Chissà cosa avrebbe raccontato dell’attuale economia cinese.
«Me lo sono chiesto, anche alla luce del fatto che, oltre alle traversie dell’economia italiana e europea, mi interessa il rapporto Cina-Stati-Uniti».
Che scenario prevede?
«Il rapporto si sta già modificando sul fronte economico e sul piano geopolitico nella direzione della Cina. Si tratta di un passaggio di evidente delicatezza. Che ci costringerà a una ridefinizione di che cosa sono Occidente e Oriente».
La keynesiana Robinson insegnava a Cambridge. Perché lei ha scelto Oxford? I grandi economisti erano dall’altra parte.
«Erano in entrambe le università. Ma essendo le mie propensioni analitiche rivolte a Cambridge, mi interessava la diversità di Oxford. Era un ateneo strepitoso dove si studiava senza controlli fiscali. Doveva bastare l’esempio di economisti illustri (Hicks, Harrod, Seton, Solow in visita dal Mit, il mio supervisore Robin Matthews) e storici straordinari (Hill, Trevor Roper, Mack Smith, Deakin)».
Che cosa può ancora suggerirci un personaggio come Keynes?
«Molto. A patto che si legga direttamente, non attraverso i keynesiani che la Robinson bollava come "bastardi", o con quelli della sintesi neoclassica. Keynes insegna l’essenziale per governare ancora oggi un’economia di mercato capitalistica. Ne aveva scandagliato i limiti e studiato le decisive aspettative, quel gioco di previsioni che conduce un’economia al giusto equilibrio».
L’economia nel corso della sua storia novecentesca si è davvero giocata nel confronto-scontro tra Hayek e Keynes?
«No. Keynes stimava Hayek, eppure lo spiazzò come fece con tutti. La sua Teoria generale fu un evento assolutamente nuovo. Si misurava con gli economisti classici e con il suo maestro Alfred Marshall. Eppure – come insegnava Federico Caffè – nell’economia c’è molto di più. Non si deve gettare via nulla, a cominciare da Hayek. È un invito alla duttilità teorica».
Ha studiato con Caffè?
«Con lui e con altri. Mi sono a vario titolo imbattuto – ma anche cercandoli – in docenti come Cesare Cosciani, Sergio Steve, Bruno de Finetti, Paolo Sylos Labini, Luigi Spaventa e naturalmente Caffè. Credo di essere stato fortunato. A un economista alle prime armi suggerirei di applicarsi allo studio dei capolavori dei sette giganti dell’analisi economica: Smith, Ricardo, Marx, Walras, Schumpeter, Keynes, Sraffa. Il resto spesso è tecnica».
Accetta la definizione dell’economia come "scienza triste"?
«Proprio no. La definizione è di Thomas Carlyle, il quale al pari dei suoi "Eroi", capiva poco di economia, scienza che Bertrand Russell confessava all’amico Keynes di trovare tanto utile quanto difficile. Per Keynes l’economia è un misto di calcolo e psicologia, tra Cartesio e Freud, per intenderci. Di qui le difficoltà. Ma se la sua finalità è, come diceva Keynes, il doing good per tutti, ossia fare del bene, allora non può essere triste».
La lunga stagione del neoliberismo non è che abbia fatto del bene a tutti. Cosa ha reso possibile il suo trionfo?
«Gli economisti neoliberisti – anche quando non si tratta di "picchiatori a pagamento" come scherzava il vecchio Marx – sono meno critici del sistema e quindi dal sistema preferiti. Aggiungo che la scuola di Cambridge, nel suo snobismo, riteneva che bastasse aver dimostrato la propria superiorità teorica per avere la meglio, trascurando la ricerca empirica. Il ridimensionamento del liberismo è seguito alla crisi Lehman del 2008: una vendetta della storia!.»
Lei ha ricoperto incarichi di primissimo piano alla Banca d’Italia. È entrato nel 1967 e ne è uscito quarant’anni dopo. Cosa è stato quel lungo viaggio?
«Per qualità e apertura di mezzi "Via Nazionale" è un luogo di lavoro privilegiato. Tessera politica e censo non contano. Per questo e perché aborro le "porte girevoli", da quando nel 2006 ne sono uscito non ho accettato altre proposte di lavoro, prendendo in questo a modello nientemeno che Donato Menichella».
Lodevole, ma non le sembra eccessivo?
«Per me è stata una questione di stile e di scelta convinta. Niente risentimenti. Né ripensamenti».
L’indipendenza della Banca d’Italia è stata più volte insidiata. Attualmente com’è la situazione?
«Essere di fatto e non solo di diritto autonomi dalla politica e dal mondo degli affari, dagli altri poteri dello Stato, è arduo, forse in Italia più che altrove. Per il Nobel James Tobin, nulla è più politico della moneta. La Banca d’Italia chiamata a governarla è quindi esposta non solo a critiche ma ad attacchi. L’attuale Governatore ha dimostrato di avere la statura necessaria a reggere il peso, comprese le inchieste parlamentari. Per l’editore Aragno, Federico Carli e io abbiamo eretto un monumento in sei volumi alle personalità che hanno guidato la banca centrale italiana dal secondo dopoguerra».
Lei è stato a un passo dal diventare Governatore. Cosa ha provato per non essere stato scelto?
«Il fatto che il Consiglio Superiore della Banca d’Italia nel 2005 mi abbia proposto formalmente all’Esecutivo come Governatore, ancora mi gratifica. Al tempo stesso, per avermi risparmiato la gravosa responsabilità mi rende – come dire – riconoscente al governo che mi escluse».
Una risposta tra l’ironico e il diplomatico. Sta di fatto che lei l’anno dopo decise di andare via dalla Banca d’Italia. Perché?
«Perché ho passato quarant’anni della mia vita in quella istituzione. Non sono stati pochi».
Che ruolo deve avere la politica nell’economia?
«Un ruolo fondamentale. Un’economia capitalistica, dati i "fallimenti del mercato" in cui incorre, va guidata, ovviamente dall’alta politica».
Dove è nato?
«A Pescara. Durante la guerra sfollammo, trasferendoci ad Aquila, dalla quale i miei genitori provenivano. Erano entrambi bravi professori. Mio padre – "comunista dilettante" – negli anni Trenta si laureò con Giovanni Gentile sul concetto di libertà in Blondel. Mia madre si laureò con una tesi sul brigantaggio negli Abruzzi dopo l’unità, il tema continua ad appassionarmi. Mio padre diceva che la filosofia affascina, la ragioneria rileva».
Lei ha provato a tenere insieme numeri e idee.
«Ho provato a non lasciare mai fuori la cultura. Oggi sono solo un ex banchiere centrale, convinto che la cultura sia tra i presupposti del buon funzionamento dell’economia, oltre che un piacere della vita».
Legge molto?
«Abbastanza».
Se dovesse indicare tre scrittori italiani del ‘900 che un economista dovrebbe conoscere?
«Tra i grandi siciliani Capuana e Tomasi di Lampedusa. E poi Silvio d’Arzo il cui romanzo breve Casa d’altri è un gioiello di stile».
Che cos’è lo stile per un economista?
«Beh, è diverso dallo stile dello scrittore. Non deve ignorare i canoni della teoria e padroneggiare al meglio la lingua madre. Come Carlo Azeglio Ciampi ci insegnava, e ha dimostrato con la sua vicenda personale, la lingua è l’algoritmo che dischiude tutte le porte del sapere, forse anche del potere».
Mi pare una conclusione sibillina.
«Nel senso che il potere quando può si serve della lingua più per nascondere che per chiarire».