Robinson, 15 agosto 2020
Una chiacchierata con Cesare Cremonini
A.D. 2000. Brugherio, profonda Brianza, interno pomeriggio, ex cartiera riadattata da Celentano a studio televisivo più grande del Molise. I Lùnapop entrano nell’hangar per provare. Cesare Cremonini, 19 anni, da San Lazzaro, transita alle spalle del Molleggiato e non si tiene: «Ma ‘sti capelli? Dove li abbiamo messi?». Il roteare di sguardi è quello della Casa Bianca ogni volta che Trump annuncia di voler invadere il New Mexico. «Cesare, magari meglio di no…». Adriano si volta e allarga uno di quei suoi sorrisi a ribaltina: «Lascialo fare». Segue vendetta: La Festa, pezzo celentaniano sconosciuto ai più, provato per ore dai ragazzotti bolognesi in un caldo torrenziale. La sera dopo, in diretta, Cesare, colpirà ancora: «Ma con tutto quello che hai speso per ’sto studio un condizionatore non c’era?».
Quello che oggi sarebbe oggetto di scandalo (titolo di Libero: "Anche i miliardari contro gli sprechi Rai") o di clickbaiting ("Cremonini asfalta Celentano: guarda qui!") allora fu preso per quello che era. Spettacolo, fight club di giovani e vecchi leoni davanti a 9 milioni di cristiani, diritto alla cazzata. Ad Adriano quel che è di Adriano – «Non paragonabile a nulla e a nessuno» – e a Cesare quel che è di Cesare. Leggerezza, sfrontatezza, incoscienza giovanile che col tempo è diventata alterità inseguita, cesellata, puntellata. Come Furio Focolari quando parlava degli sci di Alberto Tomba: «L’unico che li tiene larghi, ma uniti».
Consapevolezza, anche, che rappresenti un mezzo potente e puoi usare te stesso per scrivere e cantare Kashmir Kashmir, l’epopea laterale di un migrante che voleva arrivare fin qui solo per ballare: «Mi piaceva l’idea che la gente potesse ondeggiare su un ritornello in arabo, in discoteca, nell’Italia di oggi». Anche al Papeete. Un modo per mitridatizzare il razzismo, sfiorare il confine della canzone politica, della serata fumosa al Tenco, su una base ritmica scippata ai Clash. Senza cadere dal filo, senza farsi male. Come i calciatori.
«Qualche giorno fa parlavo con Mihajlovic, il mio allenatore, l’allenatore del Bologna. Per i primi dieci minuti sembrava di essere in un film di Kusturica. A un certo punto deve avermi detto che non lo guardavo abbastanza negli occhi perché mi sono messo a fissarli con un certo timore, lui e il suo vice».Rischiando lo strabismo. «Mi ha rivelato due cose. La prima è che vuole arrivare in Europa col Bologna e poi se ne va in una grande. Spietato, ma onesto. La seconda che la gestione di quelli che manda in campo, oggi, significa tenerli costantemente al limite, fisicamente, un millimetro prima che si rompano. Ecco, io faccio così». Largo, ma unito.
Con Cesare ci si incontra davanti a una crescentina col friggione, combinazione di gnocco fritto e cipolle annegate nell’olio: una basterebbe a sfamare la Guinea Equatoriale per tre anni. Almeno. Quella sera a Brugherio c’ero anch’io, da manovale del video. E c’ero la sera prima, quando insieme a Michele Serra avevamo svolto da controfigure dei Lùnapop sdraiandoci a terra nel deserto in cartapesta ricostruito da Celentano. Poi, per vent’anni, ne ho solo seguito da lontano il percorso bello e accidentato per cui se parti da Bologna, capitale mondiale del luogo comune – e come si mangia bene, e come siete accoglienti, e come siete comunisti, e le donne, ah, le donne – è tutto sempre un po’ più difficile. Canzonette, certo. Forse. Ma con un percorso di erudizione in filigrana, eppure palmare, paragonabile solo a quello di Jovanotti. Al quale gli anni hanno regalato l’espressione da guru. Mentre Cesare no, Cesare ha ancora la faccia buona di quando faceva il fesso cattivo nei film di Pupi Avati, che tra parentesi imita benissimo.E quando ti parla (lui dice di no) sembra quasi debba sempre chiedere scusa: del successo, dei soldi, degli stadi pieni, di essere, o mio dio, spiritoso.
Ne avevo trattato nel mio francobollo satirico per via di quella querelle televisiva, quella... dai che la conoscete. Lui seduto nel salotto di Alessandro Cattelan, su Sky, l’unico late show italiano, e la gag su Emilia, la sua colf rumena: «Non si chiama così. La chiamo Emilia perché la pago e decido io il suo nome». Tre giorni di silenzio poi… «Poi mi è esploso Instagram ». Il frammento (recitato) era finito, debitamente porzionato, sui social: indignazione, insulti, cattiva coscienza di popolo traslata sulle spalle del “guitto”. Avevo detto, avevo scritto, che c’era più di un equivoco. Gli era piaciuto: «Ci vediamo?».
Ci vediamo. Chiacchieriamo tre ore sul tema, sulla sventura di finire in mezzo a una delle mille bolle di Internet, al centro di un plotone d’esecuzione virtuale… e il moderato è lui. Gli dico: e allora Disperato Erotico Stomp? La puttana ottimista e di sinistra di Dalla? Oggi lo impalerebbero. E lui: «Ma quando scrivo devo tenere conto del contesto, è un dovere. È un patto con chi mi ascolta». Aggiungo: sì però negli Usa… E lui: «Negli Usa forse avrebbero capito che era uno sketch, una gag, che stavo rappresentando il coglione bolognese tipo… ma come diceva Sassaroli in Amici miei, ho sofferto come un cane per almeno tre quarti d’ora».
Mica vero. La fatica riemerge carsica mentre il rosso viaggia verso il fondo del calice. Perché nessuno vuole essere Robin, ma nemmeno Malaussène. E se a dirti che non ti dovevi permettere è la stessa paccottiglia di chi esalta i Ricky Gervais, i Louis CK, gli standupper americani politicamente scorretti, o la loro versione edulcorata di seconda serata, i Fallon, i Kimmel, se a farti il contropelo, mica solo sui social, sono i critici che “eh, come siamo provinciali, da noi certe cose non si fanno mai…”, avresti tutto il diritto di alzare barriere, di tornare agli italianissimi cazzi tuoi, protetto dal male assoluto: i discografici, il cui mestiere è troncare e sopire.
Invece lo rifarà. Proverà a non prendersi troppo sul serio anche se poi, quando serio lo diventa, gli piace raccontarti come e perché il suo percorso contenga sempre un filo rosso di indulgenza. Abbraccia, non esclude. È un filo di sutura: «Credo che valga per molti della mia generazione. Eravamo arrivati al 2001 sospinti da un’utopia di globalizzazione possibile, delle persone molto più che delle merci. L’Europa era un punto d’arrivo, uno scrigno di opportunità. L’unico evento storico che ci era stato dato di vivere era stato una festa: il crollo del Muro di Berlino. Sembrava, davvero, che il cielo fosse il limite. Ricordo ancora le mattinate a scuola, quando le maestre ci raccontavano in diretta cosa stesse succedendo». Ah, la vituperata scuola pubblica… «Fantastica. Per loro era come se finisse davvero la Seconda guerra mondiale, noi percepivamo solo un senso di liberazione, di gioia, di energia, che intanto contagiava anche la musica. Me lo sono portato dentro fino a quell’anno maledetto. A quei due traumi».
Il primo, l’11 settembre. L’altro… «L’altro alla Caserma Diaz… Pensare che certe cose potessero accadere anche da noi, che persone inermi potessero essere massacrate nel sonno, fu il primo pugno in faccia di un anno terrificante. Era la fine dell’innocenza. Era una sorta di richiamo all’ordine per le nostre speranze. Mi era già successo nel ’92, con Falcone e Borsellino. Ma avevo dodici anni, l’elaborazione fu meno profonda. Invece Genova… quell’occasione persa ci ha ipotecato una parte di futuro».
Come la bomba alla stazione, il 2 agosto 1980. Che ha quarant’anni, come lui. Qualcosa che per ogni bolognese ha un prima e un dopo. La vetrina del Pci mandata in frantumi. La fine dell’innocenza, appunto. La mia. «Per me – Cesare – la memoria che ho dovuto ricostruire. Che ho sentito il bisogno, di ricostruire. È il figlio che chiede al padre qualcosa che sa di dover essere suo. Poi magari non ci farò mai una canzone. Ma sono io. È parte di me. Il tuo omonimo, lo chef, diceva l’altro giorno qualcosa che condivido: prova a tenere un piede nel passato, con lo sguardo dritto e aperto nel futuro».
Come in quella vecchia canzone di Pierangelo Bertoli, che con Cremonini parrebbe avere in comune solo un felice incrocio di meridiani e paralleli. Invece… Invece, mentre il friggione comincia la sua adesione all’adipe (il mio), fatico sempre più a individuare il confine tra il ragazzo coi capelli rosso fuoco degli esordi, il pacato giovin signore che mi siede davanti, e il discepolo di Freddie Mercury, capace di scavarsi una nicchia nobile – chiamiamolo pop di senso – che nel mio immaginario lo accosta a Paolo Virzì, felice anello di congiunzione tra commedia all’italiana e cinema d’impegno. Che è bello e tutto quanto però, come la musica balcanica, alla lunga… Anche Cesare sembra convivere, oltre che col friggione, con un personale ovosodo. E quando lo dimentica, quando sembra stia per deglutirlo, c’è il dopo Cattelan. O le polemiche sul suo ultimo pezzo Giovane stupida.
Perché a volte il sessismo, roba serissima, è nell’occhio di chi guarda. Nello specifico, il culo (cit.) della sua attuale compagna, idolatrato quasi per caso, con grazia. Mai troppa, per qualcuno.Così capita che in questo tuo rincorrerti, questa ricerca di sonorità «larghe ma unite» a cavallo di una frontiera stranissima tra i Settanta e i Novanta, il buco nero di questo Paese, i terribili Ottanta, partoriscano un apostrofo infantile tra cantautorato classico, suoni bitolsiani, citazioni progressive, pop-rock fatto in casa, e qualcosa che classico non è, o lo diventerà quasi per caso. Che diventi adulto.
Due anni fa il Comune di Bologna, a Natale, appese le parole del “Gesù bambino” di Lucio Dalla (e Paola Pallottino). Questo Natale le lucine componevano un testo di Cesare. Robin, appunto. «Per un attimo ho pensato di essere morto». «Morto no, ma a volte sembri più vecchio di quel che sostieni», dico. «Forse», ride ancora. «Ma prima mi hai detto che tuo figlio adolescente mi conosce e mi apprezza». «Vero: ascolta sconosciuti gruppi australiani, e te». «Questo mi rassicura molto».
Per la Siae che continuerà a tracimare. Per il limite, che si sposta un po’ più in là. O forse per aver capito che a furia di cercarlo, lo standard, il confine, lo zenith plausibile, scopri che quel confine vorresti essere tu. O forse lo sei già diventato. Chissà.
Nota per il lettore/la lettrice/nonbinary: questo pezzo è stato scritto dopo una chiacchierata di un intero pomeriggio, ricca di pensieri molto più profondi e rivelazioni anche importanti, che mi sono appuntato e che ho diligentemente registrato. Senza rileggere, senza riascoltare.