la Repubblica, 15 agosto 2020
Storia e significati del tatuaggio
Sono trascorsi 251 anni da quando il Capitano Cook annotò in Polinesia la consuetudine degli abitanti di quelle isole di ricoprire il proprio corpo di segni, per cui tradusse l’espressione tau-tau, usata a Tahiti, nell’inglese tattoo, da cui viene la parola tatuaggio. Vero che nel corso dell’Ottocento a disegnare sulla propria pelle sono stati prima di tutto le fasce borderline e marginali della popolazione occidentale, marinai, soldati, carcerati, prostitute, ma questo accadeva oltre un secolo e mezzo fa.
Poi, a partire dagli anni Cinquanta del Novecento, settori sempre più ampi della popolazione giovanile hanno trasformato il proprio corpo in una superficie su cui scrivere. Il corpo, ha sottolineato l’antropologo Marc Augé, è insieme la nostra parte più intima e quella più pubblica, racchiude l’interiorità ed espone l’esteriorità. Per dirla con un termine in voga, è un’interfaccia.
Da sempre su questa superficie le società umane hanno scritto, lasciato marchi, come mostrano le tracce incise sul corpo di un uomo di 5300 anni fa, ribattezzato Otzi, ritrovato sulle Alpi alcuni decenni fa. Sovente si è trattato di pratiche di dominio, cui gli uomini e le donne cercavano di sottrarsi. Oggi invece sono i giovani stessi a marchiare il proprio corpo, a segnare come su un foglio momenti salienti della propria vita: esperienze, incontri, amori, dolori, fantasie, sogni, immaginazioni. Scrivere sulla propria pelle è un modo per manifestare una forma di possesso, sentire e far sentire agli altri la propria esistenza, e dunque la propria identità. Lo psicoanalista francese Didier Anzieu sostiene che si tratta di una forma di ridefinizione del proprio confine estremo, un modo con cui si differenzia il proprio sé rispetto agli altri, per far percepire che dentro il corpo c’è qualcosa e non il nulla. Nella nostra società l’idea della pelle come confine inviolato è tramontata. Tatuandosi i giovani esprimono un’appropriazione di se stessi, o meglio di quel corpo che possono sentire, di volta in volta, brutto, imprigionato, impotente, abusato, inadeguato, controllato da altri. Scrivere sulla propria pelle è un modo per manifestare una forma di possesso, sentire e far sentire agli altri la propria esistenza, e dunque la propria identità; e a volte persino per sedurre: il tatuaggio rende “particolari”.
Per cui appare retrograda la decisione di escludere una giovane donna dal corpo della Polizia di Stato per un tatuaggio, che per altro ella stessa ha cancellato con il laser. La decisione dal punto di vista culturale ed antropologico si presenta arretrata rispetto al costume contemporaneo, alle consuetudini e alle azioni delle giovani generazioni, frutto di una mentalità che non tiene conto delle trasformazioni avvenute nel costume. Arianna, questo il nome della giovane poliziotta, come riferiscono le cronache aveva tatuato a diciotto anni un cuore sul polso e per questa ragione, e non per altro, è stata esclusa dal corpo di polizia, come se questo costituisse un marchio d’infamia. I tatuaggi dei ragazzi e dei giovani non lo sono più da parecchio tempo. Forse ad alcuni possono non piacere, ma si tratta di una preferenza individuale e non un giudizio che può assumere un rilievo sociale. Per questo anche la sentenza favorevole all’esonero del Consiglio di Stato stupisce. Non sarà che proprio l’essere donna tatuata – tatuaggio minimo per altro – costituisce ancora un marchio d’esclusione?