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 2020  agosto 15 Sabato calendario

Intervista a Giovanni Sollima

Non si muoverebbe nota senza il sentirsi dentro». È il suo concetto di sopravvivenza in un mondo larghissimo e con un solo porto d’inizio, la Sicilia: è la terra di nascita di Giovanni Sollima, il violoncellista e compositore palermitano. Annata 1962, fin da giovanissimo punta orizzonti distanti per appropriarsi della musica e si muove senza guardarsi mai indietro, verso Salisburgo, Stoccarda, Berlino. «Credo che non mi capitasse da quando avevo 15 anni di stare fermo tre mesi nello stesso luogo, come invece mi è successo a Palermo durante il lockdown» racconta. E lo stupore è ancora lì che balla. Almeno fino ad ora, alla ripresa del filo dei concerti: il 7 settembre il maestro sarà ospite a MiTo Settembre Musica al Conservatorio di Torino, con una doppia esecuzione e un programma dove, fra le sonate di Bach e Stravinskj, ha inserito la prima assoluta del suo brano Acqua profonda. E l’11 al Mittelfest, la rassegna di musica e teatro a Cividale del Friuli quest’anno dedicata all’empatia, con lo spettacolo Folk Cello.
Ascoltarsi e percepire gli altri è una componente importante della sua vita?
«L’empatia è un filo rosso che corre da sempre nelle mie giornate, diversamente sarebbe difficile il rapporto con il violoncello. Altri strumenti raccontano aspetti della vita come l’estetica, o i contrasti musicali, ma non è il mio caso».
Come trova la concentrazione per produrre il suono?
«L’unica parentela che può avere il violoncello è con l’acqua e l’aria. Quando suono non ho mai in mente una superficie dura, sono un isolano e penso all’acqua, una superficie capace di muoversi. La musica fa sì che l’acqua si possa poggiare sulle corde: ecco, io mentre suono scendo nelle profondità del mare ed è a questo che penso. La musica non è una creazione contemplativa».
Sembra un racconto. Lo porterà a MiTo e al Mittelfest, davanti a platee che devono ritrovare intimità con monologhi, soli, narrazioni dal vivo?
«Proprio perché per me è tutto empatico, può essere difficile fare una scaletta in anticipo. La sequenza dei gesti e dei brani è la drammaturgia del concerto. E la definisco all’ultimo istante».
Quali spazi fuori dall’architettura musicale hanno attraversato le sue emozioni, per quanto la Scala resti inarrivabile?
«Il luogo lo fa la presenza dei musicisti e del pubblico, che viene al concerto con le sue certezze, l’impreparazione, o il desiderio di sorpresa. Un range ampio a livello percettivo, a cui aggiungiamo la storia, l’acustica, l’energia che sprigiona lo spazio. La mia memoria torna a esibizioni in un cratere spento dell’Etna, una forma di teatro antico; o nel deserto, dove c’è una tale forza da portarti dentro la sacralità del luogo. Certo suonare alla Scala è un brivido non riproducibile ».
Nei suoi talenti ci sono le colonne sonore cinematografiche, fra cui I Cento passi di Marco Tullio Giordana: ha fatto i conti con gli atti di mafia anche grazie alla musica?
«Giordana mi chiamò, non ci conoscevamo, e mi coinvolse. Io mi sentivo parte attiva su quei temi, quei luoghi e ho accettato, sapendo che non avrei potuto scrivere la musica di un film che avrebbe preso forma durante le riprese. Infatti alcune parti le avevo pronte, altre le ho scritte sul set. I sentimenti erano contrastanti».
Palermo tiene stretti i ricordi o l’ha lasciata andare?
«Da ragazzino e adolescente vivevo in una Palermo ferita, la scelta era soccombere o reagire. Questo mi è rimasto dentro della mia città: la scelta di urlare per le strade suonando il violoncello - che c’è da sempre nella mia vita, prima ancora che io nascessi. Nel ’95 ho suonato in Santa Maria dello Spasimo e da quel momento è diventata un luogo della musica, poco distante da dove sono cresciuti Falcone e Borsellino. Si lotta contro la mafia anche difendendo luoghi che producono teatro, danza, musica. Con la testa del ragazzo la Sicilia era una terra invincibile, da adulto me la sono presa con le istituzioni, la borghesia annoiata molto vicina a essere collusa. Negli Anni 70-80 Palermo marciva e noi scappavamo via».
Per tornarci spesso, come la volta in cui è arrivato con un violoncello di ghiaccio: come si fa a suonare sotto zero?
«Una decina di anni fa lo scultore americano Tim Linarth, che vive in Lapponia, mi cercò per propormi di andare al suo festival dove si suona con strumenti di ghiaccio. Un periodo a cui penso ogni volta che apro il frigo. Poi due anni fa io e lui siamo partiti per un tour con il violoncello di ghiaccio, ho suonato in una sorta di bolla a -10, ma non me ne sono accorto: quando suoni sei atermico. Un viaggio dalle Dolomiti a Palermo, e lì nel mare ho sciolto il violoncello. Quei concerti sono diventati un docu-film che andrà a l Festival di Venezia ».
A New York Philip Glass è stato il suo produttore. Cosa ha trovato in lei di inaspettato?
«A fine Anni 90 incontro Philip Glass, diventa un padre per me con la sua esperienza. E lui trova in me un musicista ottocentesco, compositore e virtuoso dello strumento».
Ennio Morricone è scomparso senza lasciare eredi, lei ha un allievo?
«Morricone non ha eredi è vero, ma ha fatto proseliti. Io insegno a Brescia e mi trovo davanti a talenti straordinari, ho diversi allievi. Ma non conta il nome, un bambino di 8 anni è venuto a lezione da me con una grazia così contagiosa che d’istinto gli ho chiesto: "Vuoi suonare con me?"».