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 2020  agosto 15 Sabato calendario

La Sicilia torna nelle miniere di sale

Sentimenti contrastanti affiorano nell’apprendere che la Sicilia si appresta ad offrire la possibilità di tornare a sfruttare due miniere di salgemma. È forte la memoria di un passato cupo di lutti e sofferenze, ma non si può restare indifferenti all’opportunità di riprendere in mano, con condizioni favorevoli e ben diverse da prima, un patrimonio che molto ha significato per i siciliani e per l’economia dell’Isola. Le miniere, e il sale in particolare, sono stati per lungo tempo il viatico che ha accompagnato la vita quotidiana di una fetta di società che col sale o si è arricchita - e questa è la storia di una benestante classe dirigente - o è riuscita a sopravvivere, seppure fra stenti, lutti e umiliazioni. E questa è la storia dei vinti di verghiana memoria.
Certo, oggi ci si emoziona davanti alle caleidoscopiche cattedrali del sale (stupenda quella di Realmonte dedicata a Santa Barbara, patrona dei minatori), ai fantastici disegni lasciati dal salgemma che crolla dalle pareti, ma una memoria più lunga non può non riportarci, indietro nel tempo, alle invivibili condizioni dei «salinari», alla miseria, ai lutti provocati da crolli mai giudicati da un Tribunale e al pianto di vedove e orfani mai pienamente risarciti.
Tutti i maggiori scrittori siciliani hanno raccontato le miniere, del sale o dello zolfo: da Luigi Pirandello, con il Ciàula che scopre la luna (in un raro momento di libertà, lontano dalla buca dove in pratica viveva), ad Andrea Camilleri (Un filo di fumo), al Verga di Rosso Malpelo. Tutti personaggi da letteratura, ma nella realtà vivi e sofferenti, segnati in modo indelebile. Costretti a restare curvi sotto il peso di un lavoro assassino, ma sempre unica possibilità di sopravvivenza. I «carusi» che vivevano sotto terra come topi non avevano ampia facoltà di scelta. Fuori da quei pozzi senza fine trovavano solo lo spettro della fame. Così, in un monologo del regista e attore Vincenzo Pirrotta, recita il «lamento» di uno dei salinari di Racalmuto: «Sali e zurfaru/zurfaru e sali/e piccunati n’facciu a la pirrera/scuru e terra/terra e scuru....».
Ai «salinari» del suo paese (Racalmuto), Sciascia dedica un capitolo del suo Le parrocchie di Regalpetra ed è un racconto da pelle d’oca. Lo scrittore conosceva bene la realtà della salina «Fontanelle»: lì avevano lavorato il nonno, il padre contabile e il fratello Giuseppe, che morirà suicida in una miniera, durante uno sciopero. Erano tempi magri, un salinaro guadagnava 600 lire al giorno, ma con l’incubo che arrivasse la frana. E quando arrivava era annunciata da uno scricchiolìo che, talvolta, consentiva al salinaro di turno di «gettarsi di lato» e salvarsi. Qualche volta. Nel racconto di Sciascia il «caruso» non riusciva a farsi di lato e moriva.
Sciascia spende molte parole per descrivere il funerale, con la musica dietro al tabuto e la vedova che si rivolge al marito morto chiamandolo «colonna d’oro» e «giglio». Terribile la riflessione dello scrittore sull’esistenza dei salinari: «Da morti la loro condizione è migliore». Già, da vivi lavoravano, mangiavano «pane e cipolla cruda» e a cena «pasta di scarto e verdura». Per non parlare del lungo elenco di malattie professionali: dai reumatismi ai fastidi ai bulbi oculari provocati dal sale. Amore e odio per l’oro bianco che arrivava a costare da 30 a 70 lire al chilo, ma ai lavoratori procurava 6 centesimi al chilo per i picconatori e sei per i caricatori. Il sale, grande opportunità di ricchezza, ma anche di sofferenza. Il suo racconto, Sciascia, avrebbe voluto intitolarlo: Il sale sulla piaga, ma editorialmente prevalse il più asettico I salinari, che si conclude con una cupa descrizione: «La campagna intorno è tarlata di gallerie che inseguono il sale, il sale si ammucchia candido e splendente alla stazione, sale, nebbia e miseria, il sale sulla piaga, rossa ulcera di miseria».
Eppure c’è un rapporto profondo col sale, in Sicilia. Nel Gattopardo il principe di Salina «assolve», con lo «straniero Chevalley», il vizio siculo di sentirsi «il sale della terra». Una cucina senza sale nell’Isola non è pensabile e per descrivere un uomo senza qualità lo si definisce «greviu», cioè sciapo, né carne né pesce.Il sale è merce preziosa e oggetto di contrabbando. Chi ha qualche capello bianco ricorda ancora le irruzioni dei finanzieri sul traghetto che da Messina portava a Villa San Giovanni, a caccia del sale nascosto per sfuggire alla tassa del monopolio. I «corrieri» erano dei poveracci che cercavano di guadagnare qualche lira e il minerale veniva nascosto persino nell’imbottitura dei sedili. Ma c’erano anche nascondigli più sicuri, per esempio le gonne di decine di «matrone» sicule: lì non si poteva perquisire.
Ancora oggi viene data grande importanza al sale, sia quello minerale, sia l’altro, marino, lavorato lungo la costa trapanese (si chiama via del sale) cosparsa di vasche e mulini a vento che rendono unico il tramonto davanti all’isoletta di Mozia. C’è un venditore ambulante, a Palermo, che grida al megafono: «Prendete il sale e conservatelo. Quando mi cercate non mi trovate». Anche lui sopravvive discretamente grazie al sale. Resta in fondo alla testa un tarlo: è vero che le miniere dismesse (parecchie) sono state utilizzate come depositi di rifiuti di ogni tipo? Forse sarebbe il caso di verificare, prima di riaprire.