Corriere della Sera, 15 agosto 2020
Gli anni 70 raccontati da Blob
In questo momento la tv è così poco interessante che la mia attenzione è attirata da un frammento di frammenti, la sezione dedicata al 1970 di «Blob». Immagini in bianco e nero, Iva Zanicchi che canta una canzone a Giuseppe Ungaretti (facile la rima fatale: da Ungaretti a Chiambretti), Tito Stagno che dà notizia di tre giovani arrestati perché sorpresi a farsi una canna, Delia Scala e Lando Buzzanca, Maurizio Barendson, Paolo Valenti…
Sulla Rai di 50 anni fa si è accesso un dibattito, quando alcuni anni fa l’artista Francesco Vezzoli ha raccontato ed esaltato quella tv in una mostra per la Fondazione Prada, soggiogato dai varietà dell’epoca, da «Canzonissima» a «Milleluci», da «Stryx» a «C’era due volte», sprofondato nell’ombelico della Carrà e nella seduzione sessual-familiare di Mina. «Blob» ci rafforza nell’idea che gli anni 70 non sono stati i migliori anni della nostra vita. Fluttuano lì, in mezzo, né carne né pesce: anni malandrini ma ancora fortemente centristi, anni in cui vigeva il dogma del «credere, obbedire, minimizzare», i famosi anni dei mezzibusti così sapidamente raccontati da Sergio Saviane.
Al di là di singoli momenti, perché Vezzoli esalta quegli anni e «Blob», invece, ci riporta con i piedi per terra? Perché ogni antologia (l’etimo suggerisce la raccolta di fiori) è una riscrittura personale, quindi parziale e arbitraria.
Come ci insegna Giorgio Manganelli, «una antologia è una legittima strage, una carneficina vista con favore dalle autorità civili e religiose, un massacro commercialmente attendibile, infine un mezzo per cui il così detto autore può dar sfogo alla parte più cruda della sua ambivalenza verso quei libri, di cui egli sa meno di chiunque altro». Basta sostituire libri con programmi per ricavarne «uno stufato, un timballo, un brodetto, uno stracotto, uno spezzatino, un cibo gustoso e vendicativo». P.S. Questa rubrica si prende qualche giorno di riposo. Au revoir.