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 2020  agosto 15 Sabato calendario

Intervista a Novella Calligaris

Novella Calligaris, campionessa di nuoto tra gli anni 60 e 70: lei è stata una Federica Pellegrini ante litteram?
«No, per carità: Federica ha vinto ben più di me e ha avuto una longevità che io non ho avuto. Sono cambiati poi i tempi: lo sport era dilettantistico, oggi denaro e sponsor hanno creato il professionismo. Le due carriere sono troppo diverse e io non sarei capace di sostenere le pressioni degli sponsor: ho vissuto un’epoca giusta per il mio carattere».
All’epoca c’era però un’Italia al femminile che nel nuoto non vinceva: lei spezzò un tabù.
«Non vinceva nemmeno con i maschi, se è per quello... Vedere una nuotatrice minuta che si imponeva a livello internazionale ha fatto sì che tanti dicessero: anche noi ce la possiamo fare. Con i miei 167 centimetri e i miei 48 kg ero la ragazza della porta accanto in cui ci si poteva immedesimare. Sì, ho rotto un tabù».
Il mondo in quel periodo viveva momenti duri.
«Le mie medaglie più importanti coincidono con due fatti tragici: la strage ai Giochi 1972 e il golpe in Cile del 9 settembre 1973. Anche l’Italia aveva i suoi guai: i giovani si ribellavano e trovavano difficoltà a dialogare nella società».
Nella sua Padova la situazione era poi particolare.
«C’erano Freda e Ventura, ma c’era anche la contestazione dell’estrema sinistra. I miei decisero di portarmi via: mio fratello era militare a Roma e la capitale era comoda anche per papà, che girava per l’Europa e aveva bisogno di un aeroporto».
Lei da che parte stava?
«Simpatizzavo per il Movimento Studentesco. Ma non potevo fare sciopero e mi veniva ribadito anche in famiglia. Un giorno chiusero l’ingresso del liceo e mio padre mi fece entrare dal retro: “Tu comunque vai a scuola”. Già mi assentavo per il nuoto, se avessi fatto anche gli scioperi avrei perso l’anno».
Lei era la pulce che batteva le Valchirie della Ddr: come si rapportava con loro?
«Lo choc era enorme. Quando camminavo verso i blocchi di partenza speravo che quella davanti o quella dietro non inciampassero: sarei finita come una sottiletta in un panino. Così sdrammatizzavo anche la differenza fisica. Avendo frequentato una scuola tedesca, parlavo la loro lingua; ma la Stasi mi impediva di avvicinarmi e di socializzare. Erano vittime, non carnefici. Erano strappate alle famiglie e non potevano rifiutarsi. C’è chi è morta, chi ha avuto figli deformi, chi ha cambiato sesso. Però anche questa è stata la mia fortuna: battere chi era più uomo che donna ha fatto sì che l’Occidente mi vedesse come la prova che nulla è impossibile. Ancora oggi, se ho un problema, mi dico: hai sconfitto le tedesche della Ddr, puoi superare pure questa».
Bisognerebbe riscrivere la storia dei podi e dei record?
«No: loro hanno avuto solo lo sport. Lasciamo almeno le medaglie: togliere pure quelle sarebbe una crudeltà».
Qual è stata la miglior Novella Calligaris?
«Non saprei. Le tre medaglie olimpiche del 1972 sono quelle dell’incoscienza. Alla vigilia della prima vidi Shane Gould e Cornelia Ender sul podio: immaginai quanto fossero felici. Non sapevo che l’indomani avrei vissuto la stessa, meravigliosa esperienza. Quelle del Mondiale ‘73 furono invece le medaglie della consapevolezza: pensavo di vincere i 400 misti, ma mi fermai al bronzo. Entrando però in gara negli 800 stile libero capii che sarebbe stato oro. Arrivò anche il record del mondo: un atleta sente quando può farcela».
Perché si è ritirata a soli 19 anni?
«Perché avevo raggiunto gli obiettivi che mi ero posta. La famiglia premeva poi affinché “rientrassi” nella vita: e anch’io volevo nuove sfide».
Mark Spitz disse: la vera rivelazione dei Giochi di Monaco è quell’italiana piccolina.
«Be’, c’era una storiella tra me e Mark... Ma vedermi così normale nel fisico aveva impressionato lui e i tecnici. Anche gli australiani vennero a studiarmi: il loro capo allenatore mi regalò un koala imbalsamato».
Mark ha rischiato di essere suo marito?
«No, per nulla. Ci siamo rivisti in Italia e negli Usa. Quando ci incontriamo parliamo delle cose nostre e poco di nuoto».
Ai Giochi ’72 entrò anche in un’orribile pagina di storia. Ci pensa?
«Ne parlo a volte con Federica Stabilini, che era in stanza con me. Quella notte mi svegliò: “Ho sentito un botto, che cosa è successo?”. E io: “Hai mangiato troppo cioccolato: dormi, non è accaduto nulla”. Invece la mattina dopo ci rendemmo conto. Avevamo avuto il permesso di rimanere al villaggio per andare a seguire l’atletica, ma ci dissero: dovete rientrare subito in Italia. Ho un ricordo simile a un film-incubo: pensi che hai solo sognato, invece... Era la prima Olimpiade con i controlli: avevamo i pass, ma ogni divieto è superato se non c’è una strategia alle spalle».
I Giochi sono ancora la somma dei valori sportivi?
«Per me sì. Da un lato è giusto che ci siano interessi economici, ma dall’altro sono da rispettare gli attori dello spettacolo. Il primo ad averlo compreso è stato Juan Antonio Samaranch. Thomas Bach, avvocato di multinazionali ma anche ex medaglia d’oro nella scherma, ha il senso dell’equilibrio tra sport e business: l’attuale presidente del Cio non ha un compito facile, deve tenere in piedi una baracca complessa».
Tokyo 2020 alla fine slitta di un anno.
«Era inevitabile e lo si sospettava da tempo: si doveva solo gestire la comunicazione per diminuire l’impatto».
Novella giornalista: come mai?
«Mario Gherarducci, amico di papà e capo dello sport del Corriere della Sera, nel 1975 venne a trovarci e mi propose di seguire il Mondiale di Cali. Era una nuova sfida: mi piacque. Andai in Colombia, scrivevo dieci articoli al giorno e li dettavo. Finché i dimafonisti mi dissero: mandane al massimo tre. L’anno dopo Tito Stagno mi propose la Domenica Sportiva e la sfida proseguì».
Qual è la donna italiana dello sport?
«Federica Pellegrini. Più della Vezzali? Sì. Anche Valentina ha avuto una longevità straordinaria, ma io misuro l’impatto: Federica ha fatto presa sulla gente. Ha reso popolare il nuoto ed è andata oltre il suo sport».
Come vede invece voi donne italiane?
«Abbiamo fatto tanti progressi, abbiamo numerose eccellenze e abbiamo sfatato luoghi comuni: oggi la donna italiana dimostra di saper organizzare le famiglie tanto quanto i reparti medici. Infine ha duttilità e non perde la sua femminilità».
Lei ha mai subito atteggiamenti sconvenienti da parte degli uomini?
«Sì, ma li ho mandati a quel paese senza riguardi».
Novella Calligaris è femminista?
«No: per le donne il femminismo è la più grande fregatura».
Nel 1994 non riuscì a sfondare in politica con il Patto Segni.
«Non fui eletta per una buggeratura nei voti di preferenza. Ma non ho rammarichi: sono contenta di quello che ho avuto e che ho fatto, ora do anima e corpo alla Fondazione Onesti».
Aiuta anche la ricerca sul cancro.
«Ho passato una brutta vicenda: mi era stato diagnosticato un tumore, ma non era vero. Ho avuto due interventi: uno in Austria che non avrei dovuto subire e uno riparatore negli Usa. Quando posso, do una mano a chi combatte questa malattia».
Rino Gaetano nella canzone «Ping pong» la cita assieme a papa Giovanni Paolo II.
«Rino è un poeta. Quel Papa è stato poi una pietra miliare, anche per i non cristiani. Sono onorata di essere accostata a lui e di essere stata cantata da un grande musicista».
Aveva altre opzioni nello sport?
«Da bambina andavo a cavallo: smisi a causa del nuoto. Sono caduta dopo, nel 1985, e mi sono fatta piuttosto male. Ho sperimentato pure il windsurf, il pattinaggio a rotelle, lo sci e il tennis, in cui sono una schiappa infinita. Ho provato infine la scherma, grazie al mio compagno. Mi vorrebbe nelle gare “master”, ma la risposta è sempre no: con l’agonismo ho già dato».
Diamo l’Oscar a un personaggio: chi sceglie?
«Papa Francesco: ha riportato nella Chiesa tanti che la stavano lasciando. Aggiungo Bill Gates: è straricco ma ha finanziato di tutto e di più, innovando la nostra vita. In questa emergenza, però, l’Oscar lo do a medici e infermieri».
Suo fratello è stato vittima di una disgrazia: che cosa le ha insegnato?
«Mauro mi manca: è l’altra parte di me, è come se mi avessero amputato. Ci telefonavamo ogni mattina: ancora oggi mi sveglio di soprassalto perché realizzo che non ha chiamato. E sono passati quasi 20 anni... È una prova della vita che non ho superato, c’era un legame fortissimo: i genitori erano alleati, io e lui eravamo dall’altra parte della barricata. Aveva una miocardite dilatativa scoperta nel 1996: l’abbiamo seguita assieme, parlandone il meno possibile con i miei. Il giorno in cui un bravissimo primario di Pavia mi comunicò che la mia cura oncologica stava dando effetto, quello fu il momento in cui Mauro morì. In provincia... di Pavia».
Qual è la sua regola di vita?
«Ne ho due: non arrendermi mai, provandoci sempre, e sapere che domani c’è sempre qualcosa in grado di entusiasmarmi».