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 2020  agosto 15 Sabato calendario

Storia della metamorfosi del M5s

Anche basta con i giochi di parole. Da uno vale uno a tanto vale tutto, lo sberleffo viene sempre più facile e al tempo stesso sbrigativo. Quello che sta avvenendo a M5S è sotto gli occhi di tutti, da anni. La trasformazione da movimento a partito, anche un partito di quelli vecchia maniera, molto meno liquido di tanti altri, non è solo un passaggio evidente e solare, ma pure necessario alla sopravvivenza stessa dei Cinque Stelle. Che sia per ragioni di semplice galleggiamento tese a sfruttare circostanze irripetibili, oppure per darsi una struttura necessaria a essere parte dell’establishment e non solo più a criticarlo, il processo è ormai ultimato. E l’ulteriore rinuncia decretata ieri via piattaforma Rousseau ad altri caposaldi delle origini, a due dogmi sbagliati e impossibili da applicare davvero come la regola dei due mandati e il divieto di alleanze, è solo un passo ulteriore verso la definitiva metamorfosi.
Soprattutto la seconda è una presa d’atto ritardata di una realtà già indifferibile nel luglio del 2019, quando le gesta di Matteo Salvini al Papeete avevano aperto la strada per un cambio radicale di governo, con M5S che era passata dalla Lega al suo esatto contrario. A quel punto, i Cinque stelle erano già diventati un partito, alle prese con un rapido declino e la necessità impellente di restare al potere, perché la stella cometa passa una sola volta nella vita. E furono obbligati a prendere atto della necessità di una strategia diversa, che contemplava una inversione di 180 gradi rispetto a quanto fatto fino ad allora. Lo sposo promesso Nicola Zingaretti lo aveva detto subito: la nuova alleanza di governo per funzionare avrebbe dovuto diventare di sistema, e venire applicata in tutto il Paese. Una specie di nuovo centrosinistra, anche se nessuno dei partecipanti avrà mai il coraggio di chiamare la creatura con il suo nome.
A voler cercare una data di inizio in questa normalizzazione di M5S, chiamiamola così, bisogna andare indietro fino al dicembre 2014. A quando un Gianroberto Casaleggio già provato dal male che l’avrebbe portato via pochi mesi dopo, diede a malincuore il via libera alla creazione del direttorio, nome antiquato per una camera di compensazione delle tensioni seguenti al bagno delle Europee di quell’anno. Il cofondatore, come sempre incline alla visionarietà, immaginava la nuova struttura come una organizzazione leggera che avrebbe dovuto gestire le pulsioni e i conflitti locali. Nata per colmare il vuoto lasciato da Beppe Grillo intenzionato a uscire di scena, divenne, nei fatti, uno strumento di controllo dell’inquieta truppa parlamentare, e la scala sulla quale si arrampicherà Luigi Di Maio per prendere il potere all’interno di M5S.
Ma forse l’evento che più di ogni altro decreta l’irreversibilità della mutazione genetica di M5S è proprio la morte di Casaleggio che di quei dogmi oggi saltati come birilli era il rigido custode. Con la sua scomparsa, sparisce anche la vocazione autoritaria del Movimento. Non è un caso che il suo ultimo lascito sia stato la procedura del recall, ovvero l’espulsione di un eletto nel caso quest’ultimo riceva la sfiducia di almeno 500 iscritti del territorio di provenienza, e non sia mai stata applicata sul serio. A rileggere le dichiarazioni dei protagonisti odierni dopo il suo funerale si ottiene un’ulteriore conferma di come in politica tutto è scritto sull’acqua, anche gli impegni solenni e le promesse di continuità.
Con il baricentro che da Milano e Genova si spostò in maniera netta a Roma, il resto venne di conseguenza. Piaccia o non piaccia ai puristi pentastellati, si tratta di politica politicante, lotta tra correnti, ortodossi, governisti, movimentisti nostalgici, per il mantenimento del potere interno. La storia recente di M5S non è diversa in nulla da quella di ogni altro partito. La nomina di un segretario politico, figura mai prevista da un movimento che si vantava per altro di avere un non-statuto, avviene nel settembre del 2017 con tutti i crismi dei vecchi congressi di partito: il prescelto che si sottopone al voto online e all’incoronazione pubblica, il candidato di minoranza che applaude al suo fianco e nel marzo del 2018, dopo la vittoria alle politiche, diventerà presidente della Camera. Spartizioni. Nel silenzio, il mito primigenio di purezza incarnato dalla corsa in solitaria, nessuna contaminazione con la politica sporca e cattiva, era già caduto durante la campagna elettorale, con Di Maio che definiva M5S forza di governo e al tempo stesso ammetteva che non avrebbe mai potuto governare da sola. Al netto del sillogismo, appare evidente come il veto sulle alleanze fosse defunto da tempo, e le manfrine di questi ultimi tempi, compresa la votazione di ieri, abbiano svolto l’unica funzione di fumo negli occhi a beneficio dei seguaci puri di cuore.
La realtà ha battuto la propaganda per ko. Era solo questione di tempo, e sarebbe successo. Agli attuali vertici basterebbe riconoscere di aver finalmente capito che c’era del vero in quel che ripetevano i loro critici e avversari, ovvero che la politica è compromesso, che i fatti sono cosa diversa dagli slogan da Savonarola, e tutto sarebbe salvo, tranne la credibilità di chi predica onestà, onestà a getto continuo, e da almeno tre anni si esibisce in incredibili piroette pretendendo che la gente le consideri sempre e comunque una marcia in linea retta. Il vero problema è proprio l’insistenza un po’ ottusa con la quale viene ripetuto che nulla è cambiato, siamo sempre gli stessi, usando perifrasi ridicole come l’attuale «si evolve» per non riconoscere di aver predicato in passato precetti profondamente sbagliati. Quando si continua a rivendicare purezza e diversità essendo nel migliore dei casi diventati di gran corsa simili ad alleati di oggi e di ieri, ecco, quella invece, per quanto solo di natura intellettuale, è una forma di autentica disonestà.