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 2020  agosto 14 Venerdì calendario

Il Ligabue di Diritti e Elio Germano

Il titolo, Volevo nascondermi, dice già tutto: il dramma di un uomo che si sente condannato all’infelicità, timoroso e insicuro persino quando tutti vorrebbero applaudirlo (come nella scena dell’esposizione a Roma, da cui fugge impaurito).
Il Ligabue che Giorgio Diritti ha affidato a uno straordinario Elio Germano e che esce in questi giorni (dopo che il lockdown aveva soffocato una prima uscita sull’onda degli applausi al Festival di Berlino) non è certo una riscoperta del pittore naïf già magistralmente interpretato da Flavio Bucci in un ormai lontano 1977. Piuttosto è lo specchio doloroso fin ai limiti della crudeltà di un uomo che si sente schiacciato dalle proprie «imperfezioni» (fisiche, mentali, inconsce) e che prova a lottare per dar forma ai propri sogni. Come è il cammino, più o meno tortuoso, di ogni artista.
Per questo il film non segue un percorso lineare ma avvicina momenti diversi. La prima scena è in una clinica per malattie mentali, ai tempi del fascismo, con il protagonista già adulto, per poi tornare indietro a scavare in una fanciullezza e una adolescenza segnate dalla povertà e dall’ostracismo ma anche dall’amore della donna (Dagny Gioulami) che l’aveva adottato. E quando il film procede, dopo che Ligabue è espulso dalla Svizzera e costretto a trasferirsi a Gualtieri, in Emilia, dov’era nato il padre, più che farci incontrare le persone che ebbero un ruolo nella sua vita, preferisce sottolinearne la loro «funzione»: l’uomo caritatevole (lo scultore Mazzacurati: Pietro Traldi), la madre sostitutiva (la signora Mazzacurati: Orietta Notari), l’amico (lo scultore di lapidi Mozzali: Andrea Gherpelli), il giornalista (Raffaele Andreassi: Mario Perrotta), la donna tentatrice (l’attrice: Paola Lavini), l’irraggiungibile amore (Cesarina: Francesca Manfredini).
In questo modo il regista, che firma la sceneggiatura con Tania Pedroni e la collaborazione di Fredo Valla, costruisce il film come il lungo percorso di riscatto. Una strada fatta di dolore e sofferenze, di vergogne e nascondimenti (la prima inquadratura è solo per il suo occhio, che sbuca da sotto un ingombrante telo nerissimo) dove il percorso artistico diventa quasi un’appendice lungo il calvario di una vita: un’infanzia dolorosa e umiliante («Tu non meriti di esistere» lo apostrofa il maestro elementare), un’adolescenza soffocata («Io non so stare alle regole» dice presentandosi ai coetanei), un’età adulta durante la quale la lotta con le proprie angosce non finirà mai.
Il percorso cronologico è traccia per raccontare il mistero di un personaggio tormentato la cui dimensione umana prende il sopravvento
Ma il percorso cronologico è solo un’esile traccia per raccontare soprattutto le paure (soffriva anche di misofonia: certi rumori – come la tosse – lo ossessionavano) e il mistero di un personaggio tormentato e doloroso, la cui dimensione umana prende il sopravvento su tutto.
Così il gesto creativo non è quasi mai mostrato: piuttosto, lo si vede mentre inveisce contro la tela, distrugge le sue sculture, cancella un affresco. Solo sui titoli di coda sono finalmente inquadrati i suoi dipinti, ma scendendo nei particolari, a mostrare la forza della pennellata e del colore piuttosto che la totalità del disegno. Una scelta insolita per quello che potrebbe apparire a prima vista come un biopic, ma che si giustifica con la voglia di cercare l’anima di un uomo prima che il segreto dell’artista.
Dopo una prima parte punteggiata di flashback, il film sboccia in una seconda più piana e malinconica dove si racconta il rapporto di Ligabue con il mercato dell’arte e i fantasmi della creazione, ma anche i suoi sogni di rispettabilità (l’auto con l’autista, il cappotto elegante) e il rapporto con le donne (l’amata ma irraggiungibile Cesarina, la provocazione dell’attrice). A fare da contrappunto, le immagini della campagna emiliana (esaltata dalla fotografia di Matteo Cocco) che danno forma a quel sogno di pace e di serenità che Ligabue insegue invano e che la regia amplifica con l’uso «olmiano» del dialetto e di facce non riconoscibili per i personaggi di contorno.
Solo Germano (giustamente premiato a Berlino con l’Orso per l’interpretazione maschile) spicca nel cast, in una prova di magistrale mimetismo, senza mai una sbavatura o un cedimento al folclore o al romanzesco.