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 2020  agosto 14 Venerdì calendario

La città “di sotto” delle badanti della Roma bene

La Roma “di sotto” inizia con un’uscita non segnalata sul viadotto della tangenziale est: si imbocca una strada sterrata che scende dalla rampa e prosegue dritta tra sassi e buche, fino al livello del fiume. È separata da un lembo di terra e vegetazione dalla foce dell’Aniene, l’ansa dove l’affluente si getta nel Tevere. Siamo sotto al livello della città ufficiale, sotto al livello della decenza. C’è un quartiere nascosto, stretto tra un campo rom, una discarica abusiva e uno sfasciacarrozze. La via è una schiera di baracche in lamiera e casette in muratura, i numeri civici sono scritti a penna sopra ai cancelli. Ci vivono 21 famiglie, 62 persone. Due nazionalità: peruviani e filippini. Anzi tre: perché l’ultima generazione è nata a Roma, chi ha compiuto 18 anni è italiano a tutti gli effetti.
In questa comunità c’è un solo mestiere: colf, badanti, operatori domestici. La Roma di sotto è la città invisibile di quelli che lavorano nella Roma di sopra. Come in Parasite, il film sudcoreano che ha vinto 4 Oscar: gli abitanti di questo insediamento abusivo si svegliano al livello del fiume tra i tettucci di eternit – anche se giurano che qui non c’è traccia di amianto – e poi salgono verso i quartieri alti. Visti da qui, in effetti, tutti i quartieri sono alti. I loro di più, lavorano nelle case della meglio borghesia romana. Roma Nord ricca e altera: Parioli, Flaminio, Pinciano.
Il villaggio è nato negli anni 90 e si è allargato nel tempo, felicemente ignorato dal resto della città. Sabato mattina una coltre di fumo nero ha avvolto la tangenziale, una nuvola molto più spessa dei fuochi abituali del campo rom accanto. Sotto al viadotto un grosso rogo stava divorando il villaggio. Le fiamme sono partite da un deposito comune accanto alle ultime case della via, quelle che lambiscono la sponda del Tevere. I vigili del fuoco sono arrivati con un’autobotte piccola, l’acqua era poca, l’incendio è divampato. Nessuno si è fatto male ma è stato divorato e distrutto ogni bene posseduto dagli abitanti di questa comunità.
“Abbiamo perso tutto. Siamo riusciti a salvare solo i documenti, i permessi di soggiorno”. La guida tra le casupole in cenere è Matias (nome inventato), cinquantenne di Lima, a Roma dal 2002. Il tour in quello che rimane della sua abitazione è macabro: scheletri di frigoriferi e televisori, un condizionatore; in bagno è rimasto un porta carta igienica annerito, in camera si riconosce appena la rete metallica del letto. Per mistero, c’è un’unica macchia di colore sopravvissuta al rogo: due calzettoni da calcio rossi spiccano nel bianco e nero della casa disintegrata.
Matias lavora in viale Parioli, l’icona posh della città. A Roma pariolino è una categoria dello spirito: identifica l’appartenenza sociale ben oltre quella del quartiere. Da sempre considerati di destra, nel 2015 ci si è resi conto che ai Parioli vince il Pd, l’ultima enclave “rossa” sulla mappa elettorale della città, insieme ai rioni del centro.
Matias per i suoi datori di lavoro è ubiquo: “Autista, uomo delle pulizie, a volte cuoco, a lungo governante”. Ha contribuito a crescere due bambini che ora hanno 15 e 16 anni. In Perù invece era perito elettronico, lavorava all’università. Chi gliel’ha fatto fare di venire qui? “Erano gli anni della caduta del regime di Fujimori, la situazione era instabile, ho avuto l’occasione di partire e poco tempo per pensarci”. Malgrado tutto non è pentito. La vita a Roma gli piace. Ha uno stipendio dignitoso, 1.200 euro al mese con i contributi pagati. Anche sua moglie fa la colf, lavora part time con una paga più bassa. I soldi basterebbero per un piccolo appartamento, perché vivono qui? “È il mio secondo matrimonio. Abbiamo quattro figli. Ho messo da parte i soldi per i loro studi. Per fargli fare un lavoro migliore del mio”. Della sua casa era orgoglioso: “Lo so che qui sembra tutto brutto, ma dentro si viveva bene. Non ci mancava niente. Avevo fatto coibentare il tetto, non si vedeva più nemmeno la lamiera”. Un vicino di Matias ascolta, e aggiunge: “Voi vedete fuori ma dentro era pulito come nelle case in cui lavoriamo”.
Al villaggio, dicono, mai un problema. Tra asiatici e sudamericani era una sola comunità aperta. Tutti stranieri regolari, sparpagliati tra le famiglie di Roma Nord, nessun disoccupato.
Fernando passa la scopa sull’uscio di quello che resta di casa sua. È un filippino di Manila, arrivato a Roma nel 1997, lavora con un anziano malato di Alzheimer, dorme lì 6 giorni su 7. Ma il domicilio è ancora tra queste baracche, insieme alla compagna e la figlia Get (32 anni, pure lei domestica): “Qui si sta bene – sorride, incredibilmente – stiamo tranquilli, lontano da tutti”.
Anche Cora è filippina. Sbriga le faccende di casa per diverse famiglie. Dieci euro all’ora. Quattro figli, tutti cresciuti a Roma. Due bambini giocano dentro una piscinetta gonfiabile colorata, accanto c’è un cavalluccio a dondolo di plastica, pezzetti di normalità. Poi fili di ferro, lamiere, rifiuti. Gli adulti fanno il punto della situazione.
Nessuno se ne vuole andare. Si fanno turni di vigilanza per evitare che gli spazi vuoti vengano occupati. C’è chi già pulisce e sistema le macerie, pensa al ritorno. “Qual è l’alternativa?”, chiede Matias. “Ora non abbiamo nulla. Se non ci aiutano a trovare una soluzione, potremo solo tornare qui”.
Dopo l’incendio la risposta del Comune è stata curiosa: è stato sgomberato il campo nomadi dall’altra parte del ponte, separato da una grande discarica abusiva, pure se con l’incendio i rom non c’entravano nulla. Ma Roma, come dire, ha colto la palla al balzo e ha sgomberato “gli zingari” con le consuete parole d’ordine: decoro, sicurezza, salute pubblica.
E il villaggio? La presidente di Municipio Francesca Del Bello ha trovato una sistemazione d’emergenza per gli sfollati: gran parte di loro sono stati accolti in un centro anziani del Villaggio Olimpico, il complesso costruito per i giochi del 1960. Alcuni dormono nelle case dei datori di lavoro o sono ospitati dai genitori dei compagni di scuola. Ma domani?
Per lo Stato questo posto non è mai esistito davvero. I suoi 61 inquilini sono stati censiti tutti: la situazione è nota, nessuno se n’è mai voluto occupare. Nel 2014 quando è esondato il Tevere gli abitanti del villaggio sono stati portati via. Prima all’ex Fiera di Roma, poi ammassati in sovrannumero in alcuni immobili confiscati alla mafia. Pure quella era una sistemazione temporanea: scaduto “l’affitto” sono tornati tutti. Alla foce dell’Aniene, nella città di sotto. Quella che si vede solo quando si allaga o va a fuoco.