Il Sole 24 Ore, 14 agosto 2020
Allarme iscrizioni nelle università inglesi
Infuria la polemica in Inghilterra per i risultati della maturità che determinano le ammissioni all’Università. Ofqual, l’autorità responsabile degli esami, ha abbassato il 40% dei voti stabiliti dagli insegnanti, con il risultato che migliaia di studenti non sono stati ammessi al corso universitario che avevano scelto.
In marzo il Governo aveva deciso di annullare del tutto gli esami di maturità a causa dell’epidemia, stabilendo che il voto sarebbe stato assegnato dagli insegnanti basandosi sui compiti in classe e sulla loro opinione degli studenti. Le autorità hanno poi introdotto un sistema computerizzato per “calibrare” i risultati.
L’algoritmo di fatto ha sistematicamente abbassato i voti nella convinzione che gli insegnanti fossero stati troppo indulgenti. I dati dimostrano che la revisione ha riguardato soprattutto le scuole statali e non ha scalfito le scuole private, portando all’accusa a Ofqual di avere imposto un sistema elitario e ingiusto.
Una situazione simile si era verificata in Scozia, che ha autonomia in materia. La polemica è stata tale dopo l’abbassamento dei voti che pochi giorni fa il ministro dell’Istruzione ha chiesto scusa pubblicamente agli studenti. Il Governo scozzese ha fatto un’inversione a U, dichiarando che saranno i voti dati dagli insegnanti a valere.
Un esempio che Gavin Williamson non intende seguire. Il ministro dell’Istruzione inglese ha ribadito ieri che non farà marcia indietro perché «il sistema è equo».
Londra ha però fatto una concessione dell’ultimo minuto, permettendo alle scuole (ma non agli studenti) di fare ricorso. Si prevede che migliaia di licei seguiranno questa strada, mentre le associazioni degli insegnanti hanno chiesto una revisione alla scozzese.
L’opposizione ha detto che la classe 2020 è stata penalizzata due volte, prima dal Covid-19 e poi dal Governo.
Doppio colpo per le Università
Alle Università britanniche viene ora chiesto di dimostrare flessibilità offrendo posti anche a studenti che non hanno ottenuto i voti richiesti a causa del sistema adottato quest’anno.
Le università quest’anno hanno già subìto un doppio colpo. La combinazione di Covid-19 e Brexit è una sfida esistenziale per gli atenei, che si trovano a dover gestire le conseguenze pratiche della pandemia e l’impatto finanziario di un calo degli studenti asiatici a causa del coronavirus e degli studenti europei a causa dell’uscita dall’Unione europea.
Uno studio dell’Institute for Fiscal Studies (Ifs) prevede che le perdite per le università britanniche nell’anno accademico 2020/21 saranno di 11 miliardi di sterline con un calo del 50% di studenti internazionali. Lo studio prevede uno spettro tra un minimo di 3 miliardi di sterline e un massimo di 19 miliardi di perdite, a seconda del numero di studenti stranieri che confermeranno la loro iscrizione.
«Per ora siamo in una situazione di limbo – spiega Andrea Biondi, docente di European Law al King’s College di Londra e direttore della European Law School -. Assisteremo senz’altro a una polarizzazione tra le università di serie A e quelle di serie B, con un impatto in termini di numeri di studenti, di prestigio e di finanze».
Reazione al coronavirus
L’emergenza coronavirus degli ultimi mesi ha dimostrato la capacità di reazione rapida delle Università britanniche. Hanno realizzato la gravità del problema molto prima del Governo e hanno autonomamente preso misure per contenere l’epidemia, chiudendo i campus, mandando a casa gli studenti e trasferendo lezioni ed esami online.
Per il prossimo anno accademico hanno optato per un sistema misto o “blend”, che prevede campus aperti ma un mix di online per le lezioni più frequentate dove distanziarsi sarebbe difficile e di incontri in presenza per i seminari con pochi studenti.
Per ora il responso è stato ottimo. Secondo i dati Ucas, che regola le ammissioni universitarie, il numero di iscrizioni per l’anno accademico che inizia in settembre è aumentato a 652mila, il livello più alto da quattro anni. Resta però un grande senso di incertezza e precarietà, dato che una temuta seconda ondata del virus in autunno manderebbe all’aria tutte le previsioni e farebbe crollare le iscrizioni.
Il problema Asia
Il numero di studenti asiatici nelle Università britanniche è andato aumentando negli ultimi anni. Nell’ultimo anno accademico il numero di studenti del primo anno dalla Cina (86.485) ha superato per la prima volta il numero di studenti da tutti e 27 i Paesi Ue messi insieme (63.535).
Gli studenti cinesi da soli sono un terzo degli studenti stranieri non-Ue e portano 1,7 miliardi all’anno nelle casse delle università, il 5% del reddito totale. Il timore ora è che a causa del rischio Covid-19 ci sia un crollo nel numero di arrivi con pesanti conseguenze finanziarie per gli atenei. Un sondaggio condotto dal British Council prevede un calo del 60% di arrivi dalla Cina nell’anno accademico 2020/21.
Oltre al problema coronavirus, potrebbero pesare anche le crescenti tensioni tra Londra e Pechino in seguito alla stretta cinese su Hong Kong e la decisione del Governo di concedere il passaporto a 3 milioni di abitanti dell’ex colonia britannica.
Il problema Brexit
Brexit sta diventando una realtà ineludibile. Il 31 dicembre finirà il periodo di transizione. I negoziati bilaterali proseguono tra le recriminazioni reciproche e un accordo resta possibile ma non probabile. Non tutto è perduto, secondo Biondi: «C’è ancora la possibilità di un accordo in extremis tra Londra e Bruxelles che conceda almeno qualche elemento di flessibilità. Tutto è ancora in discussione ma il tempo non gioca a favore». Oltre alle tensioni nei negoziati bilaterali tra Gran Bretagna e Ue, ci sono forti resistenze all’interno del Governo all’idea di “privilegiare” gli studenti Ue. Londra ha confermato che a partire dall’anno accademico 2021/22 gli studenti europei dovranno pagare le rette internazionali, quindi in media 27mila sterline all’anno invece delle attuali 9.250 sterline.
«Mantenere lo status quo sarebbe stato impossibile sia da un punto di vista legale che morale – spiega Nick Hillman, direttore dell’Higher Education Policy Institute -. Una volta usciti dalla Ue sarebbe ingiustificabile far pagare di più gli studenti da alcuni dei Paesi più poveri del mondo che studenti dai ricchi Paesi europei».