ERTO (PORDENONE) — «La prima domanda oggi la faccio io: se non fossi finito a fare il pagliaccio in tivù, Repubblica sarebbe qui a intervistarmi? La risposta è no. Il problema, nella vita privata e in quella pubblica, è questo: tutti siamo schiavi della notorietà perché il resto non ha più un valore riconosciuto.
Soldi e successo sono proporzionali alla fama e da questa droga non si salva nessuno». Mauro Corona ha compiuto 70 anni e nel suo laboratorio di Erto dice: «Negli ultimi anni ho pensato più volte di impiccarmi. Non l’ho fatto per salvare la dignità di chi mi è rimasto vicino. Ma la verità è che il dolore è come la ruggine: puoi grattarla via, ma ad ogni limata il metallo diventa più sottile, fino a sparire».
Perché sceglie il compleanno per togliersi la maschera?
«Invecchiare è questo: smettere di recitare. Così posso dire che sono stato alpinista, scultore, scrittore e personaggio da talk show solo per vanità. Per mentire, non ho più tempo».
Può essere meno generico?
«Prima sentivo un vuoto. Ci sono voluti anni per capire che quel vuoto era il bisogno di essere riconosciuto, ammirato, persino invidiato e fermato per strada. Lo ammetto: ho voluto diventare famoso per cattiveria e in parte per vendetta».
Contro chi?
«Sono nato e vivo in un piccolo paese di montagna. Per quasi trent’anni non ho parlato con mia madre e con mio padre. Ho perso un fratello che non aveva 18 anni. Non ero nessuno, nemmeno quando mi sono sposato e ho contribuito a generare quattro figli. Da bracconiere, ho cercato l’unico sentiero per uccidere la mia preda: essere invisibile e non lasciare traccia».
La feriscono, dopo il suo successo in tivù, l’accusa di populismo e la freddezza del cosiddetto mondo culturale?
«Un giorno Ermanno Olmi mi confidò che dopo il successo con
L’Albero degli zoccoli molti amici, quando lo incontravano, cambiavano marciapiede. Il mondo è feroce e il problema è che nelle disgrazie di chi amiamo c’è sempre qualcosa che non ci dispiace. Ma voglio rassicurare chi mi accusa di aver tradito anche l’intelligenza».
In che modo?
«Ho capito di poter fare a meno anche della televisione. Quella che comincia l’8 settembre sarà la mia ultima stagione in video. Ho firmato un contratto, 500 euro a puntata, devo rispettarlo per necessità famigliari. So che Repubblica rispetterà il mio terribile segreto. Ma l’istinto mi dice che ormai sono già visto e che non posso più fare la foglia di fico stesa sopra il vuoto.
Appena libero, tornerò a riempire la mia fontana, rimasta secca».
Intende dire che ritorna ad essere uno scrittore?
«Ho due libri pronti. Il primo si intitola Quattro stagioni per vivere : parla di un cacciatore che ruba un camoscio a due fratelli per salvare sua madre. Costretto a scappare in montagna per non essere ammazzato, scopre la natura che non conosceva più. E’ un romanzo sul distacco definitivo tra uomo e terra».
E il secondo?
«Esce in ottobre e racconta la storia di Celio, un uomo cattivo che attraverso il male indica il bene ad un ragazzo che lo ama. Penso sia la storia della mia vita: mi ha insegnato che a parte una cosa, tutto il resto va fatto da soli».
Torniamo alla terra malata: resta una speranza per salvarla?
«L’evidenza dice di no. La vediamo sgretolarsi, sciogliersi e morire sotto i nostri occhi, ma nessuno di noi è lì, a battersi davvero e fino in fondo per la vita. E’ il nichilismo sostanziale del terzo millennio: i nostri sogni non superano la nostra esistenza.
Perdute le fedi, anche gli amori sono smarriti: il male, oltre che possibile, viene considerato indispensabile».
Anche dai giovani?
«I giovani sono colpa nostra. La natura deve diventare materia di studio a scuola, altrimenti resta una parola lontana. L’agonia dell’ambiente e della vita sulla terra si rallenta solo con la conoscenza. La colpa degli adulti non è inquinare, ma non insegnare: per non doversi vergognare».
Perché oggi ha posto come
condizione di non parlare di politica?
«Sono alcolizzato, non ingenuo. Per i 70 anni mi regalo l’impegno di non parlare più di temi e di personaggi irrilevanti. Voglio pensare solo alle cose piccole e difendere le persone invisibili che non vengono rispettate. Non cadrò più nella trappola dell’analista da bar per far salire lo share».
Non crede che sia diseducativo esibire le proprie sbornie?
«Io sono un cattivo esempio, figlio di pessimi esempi. Dipendo dall’alcol, per questo mi accompagna la tentazione del suicidio. Finito questo colloquio, vado al bar a bere. E’ orrendo: distruggo me e le persone che mi restano vicino. Non dico che smetterò: mi terrorizza sapere di non volerlo fare. Il punto è che non si può diventare i bambini che non si è stati. Agli altri chiedo solo di essere diversi da me».
Perché, dopo tante imprese alpinistiche e tanti bestseller, non ha lasciato il paese dove è nato?
«Solo a Erto mi sento protetto e l’infanzia ogni giorno mi prende per mano. Come quasi tutti, sono un vile: so che gli altri non mi amerebbero se non fossi quello che fingo di essere.
Nemmeno mia moglie e i miei figli.
Non si va via, da stessi e da un luogo, sostanzialmente perché non si crede nell’amore».
Giunto a 70 anni, riuscirà a diventare vecchio?
«Per festeggiare ho scalato da solo il Corno d’Angolo, sopra Misurina.
Avevo bisogno di sentire il vuoto e di non sceglierlo. Arriverò alla fine in modo naturale solo resistendo a questo vuoto e alla solitudine: penso di non essere l’unico».
Cosa la colpisce oggi dell’Italia?
«Il fatto che la gente, rischiando il contagio, vuole comunque stare insieme. Non solo per divertirsi: sente che si risorge con gli altri. Avrei scommesso sui muri, vedo gettare ponti. I politici devono cambiare anche il vocabolario».
E tu, Mauro, sei rimasto solo?
«Sì, ma questa vita è tutta colpa mia».