Corriere della Sera, 13 agosto 2020
Muti e i 50 anni a Salisburgo
La vetrina musicale più blasonata festeggia il suo centenario pubblicando un libro che indica Riccardo Muti come «l’interprete più longevo nella storia del Festival di Salisburgo». Domani (primo di tre concerti), Muti dirigerà i Wiener Philharmoniker nella Nona di Beethoven: ed è un altro anniversario, essendo i 250 anni dalla nascita.
Lei qui debuttò nel 1971.
«Mi invitò Karajan per il Don Pasquale. C’erano giganti del podio, pensavo a un errore. Sono arrivato a 50 anni di seguito a Salisburgo, dove non diressi solo nel 1978 per un impegno altrove».
Dopo la morte di Karajan e la sua splendida «dittatura democratica» ci fu la rivolta.
«Mortier portò nuovi registi, alcuni grandi, altri solo provocatori che mi indussero ad abbandonare il Festival. I registi inventavano le loro storie e la musica era colonna sonora per idee spesso folli che urtavano con le intenzioni degli autori. Questo mi ha portato a ridurre al minimo le opere con regie. Non voglio passare per conservatore, sono il direttore che ha più lavorato con Luca Ronconi, e certo non si possono fare spettacoli come 50 anni fa. Oggi il regista deve creare un mondo, non inventare una sua storia».
Salisburgo resta il Festival dell’eccellenza?
«Non faccio classifiche, il mio impegno, sia che diriga qui che in un villaggio delle Alpi, è lo stesso. Quando un luogo d’arte diventa vetrina, c’è qualcosa di fuorviante. Questo Festival, che deve rispecchiare l’epoca in cui vive, fu fondato da uomini di profonda cultura».
La Nona Sinfonia.
«L’inizio ha un’atmosfera cosmica, arriva a una forza tellurica, è una partenza difficile da creare. Lo Scherzo è potente, l’Adagio è sospeso, ha un’altezza sublime, il quarto, con l’Ode alla gioia, è il più martoriato e abusato. Beethoven ebbe problemi con l’impresario per le spese… Sono le miserie umane. E abbiamo un capolavoro per l’umanità».
Non voglio passare per conservatore ma oggi il regista deve creare un mondo, non inventare una sua storia
Qual è la sfida nel dirigere Beethoven?
«Non è questione di sfida, è un repertorio che ha diversi modi di esecuzione: il trionfalismo esagerato, tipico di una certa epoca; la stringatezza di Toscanini e Eric Kleiber; la filologia, ma come si fa a ricreare un mondo che non c’è più, è come resuscitare un morto. Io cerco di attenermi al testo, né esagerando né togliendo».
Lei e i leggendari Wiener, il DNA del Festival.
«Ho dato e ricevuto. Ho imparato il senso del fraseggio, il timbro, il colore, la cultura mitteleuropea che fa parte del Sud. Non per caso dirigerò per la sesta volta a Capodanno. Napoli è stata una grande capitale musicale, Mozart quando la visitò scrisse al padre: una esibizione a Napoli vale più di 200 in Germania, anche se pagano poco».
I Wiener non hanno direttore musicale: dovrebbero risentirne nell’identità, che invece è molto salda, uno dei pochi suoni riconoscibili…
«Negli Anni 30 ebbero Clemens Krauss. Vi confluirono tedeschi, italiani, slavi, è un melting pop che forma tanti fiumi diversi, e sfociano in un grande magnifico mare. Creano un unicum di cui sono gelosi. I giovani dell’orchestra amano i direttori che hanno assimilato quel patrimonio».
Il 30 al Festival di Spoleto consegnerà il premio Carla Fendi all’infermiera Elena Pagliarini.
«L’immagine simbolo della lotta al Covid. Si addormentò al lavoro, dopo il turno estenuante, sulla tastiera. È stata premiata la sua abnegazione, il coraggio, il sacrificio, è un bell’esempio anche per i giovani della mia Orchestra Cherubini, cosa vuol dire dare senza ricevere; dare vita e speranza al prossimo. Che poi sono le parole della Nona, la fratellanza».
Tornerà a settembre a Chicago, per il suo debutto con la Messa Solenne?
«No, fino a dicembre non si può. A Chicago vanno avanti con piccoli concerti da camera. Noi europei siamo più avanti contro il Coronavirus. Mi manca molto la mia Orchestra di Chicago».