ItaliaOggi, 13 agosto 2020
Chaplin odiava i poveri
François Truffaut è forse l’unico a pensare che «il discorso finale del Grande dittatore segna il momento cruciale di tutta l’opera di Chaplin perché (…) egli lancia al mondo un messaggio di speranza». Tutti gli altri, a partire dai suoi contemporanei, ci hanno visto per lo più un imbarazzante pistolotto morale. Racconta Peter Ackroyd nel suo Charlie Chaplin, la miglior biografia del grande mimo, che «una volta lui e Buster Keaton erano nella cucina di Keaton a bere birra. «Quello che voglio» disse Chaplin «è che tutti i bambini abbiano da mangiare, un paio di scarpe ai piedi e un tetto sopra la testa!» «Ma Charlie» rispose Keaton «conosci qualcuno che non lo voglia?» Questo è forse il miglior commento all’arringa conclusiva del Grande dittatore».Qualche volta ai grandi intrattenitori capita di perdere la testa e di passare al nemico: la banalità sociologica, l’insulsaggine filosofica, la frivolezza esistenziale. A Charlie Chaplin capitò con Hitler, di cui fraintese e banalizzò l’immagine; e per di più nel 1940, dopo due anni di guerra europea, mentre i forni di Auschwitz e Mathausen già marciavano a pieno regime. Fu un passo falso da comica finale (il grassone scivola su una saponetta, oppure il vagabondo provoca un incendio cercando d’accendere un mozzicone di sigaretta raccolto per strada) che rovinò un film altrimenti memorabile.
Anche se Chaplin, come scrive Ackroyd, in realtà non provò mai «alcuna compassione per i poveri e gli emarginati» di cui prendeva le difese nei suoi film, era lusingato dalle attenzioni degl’intellettuali, ai cui occhi «il piccolo vagabondo» non era un’icona modernista, come ai tempi del muto, quando «per un certo periodo Marcel Proust si tagliò i baffi alla maniera di Chaplin» e i suoi film erano «d’ispirazione a Léger» e ai dadaisti; agli occhi della sinistra newyorchese, il vagabondo era «un eroe della classe operaia che lotta contro i ricchi e i privilegiati».
Charlot, per arruffianarsi l’intellighenzia rococò del Village e per guadagnarsi l’ammirazione di Sergej M. Ejzentejn, si spinse fino a fare il pubblico elogio delle «purghe staliniane», che definì «un’iniziativa meravigliosa». È grazie a «queste purghe», spiegò, che «i comunisti hanno eliminato i propri Quisling e Laval... Gli unici che si oppongono al comunismo e che lo usano come spauracchio sono gli agenti nazisti in questo paese».
Un po’ si spiega perché dieci anni dopo, quando a Hollywood (e non solo a Hollywood) cominciò la caccia alle streghe, Chaplin fu uno dei primi a finire sul rogo. Si spiega con queste dichiarazioni e col suo debole per le ragazzine, molto biasimato dalla stampa del tempo. Al terzo tentativo di matrimonio, ormai cinquantaquattrenne, sposò la diciottenne Oona O’Neill, l’ex ragazza di J.D. Salinger, autore del Giovane Holden, che la prese molto male. «Spesso s’è detto», scrive Ackroyd, «che Lolita di Nabokov è in parte ispirato alla storia di Lita Grey», la seconda moglie sedicenne di Chaplin.
Chaplin aveva subito il sonoro come un affronto. Era un regista della vecchia guardia: pensava che il cinema dovesse mostrare le cose, e non dirle. Se nei lungometraggi, muti e sonori, dava il peggio di sé, puntando su trame strappacore da feuilleton, era un maestro senza rivali dei cortometraggi comici, dove dietro la bombetta e il bastone da passeggio di Charlot si nascondeva un’innocenza da elfo, maligna e perversa. A differenza di Chaplin, che leggeva i filosofi da autodidatta e si proclamava amico delle buone cause, Charlot era un anarchico e un devastatore (come prima di lui il Dio Shiva nella mitologia indù e, dopo di lui, Daffy Duck nei Looney Tunes adrenalici della Warner).
(Peter Ackroyd, Charlie Chaplin, ISBN 2014, pp. 262, 25,00 euro; Charles Chaplin, Opinioni di un vagabondo. Mezzo secolo d’interviste, a cura di K. J. Hayes, Minimum Fax 2007, pp. 242, 14,00 euro; Charles Chaplin, La mia autobiografia, Mattioli 1885 2011, pp. 513, 21,90 euro).