Il Sole 24 Ore, 12 agosto 2020
Le borse sono lontane dal mondo reale
Per capire se le Borse si stanno allontanando dalla realtà ci sono più modi. Il più conosciuto è rappresentato dal rapporto tra prezzo dei titoli e gli utili attesi nei successivi 12 mesi. Tendenzialmente più questo rapporto è alto più le aziende quotano a prezzi cari. Viceversa se è troppo basso le quotazioni sono più a buon mercato.
Ma questo non sempre vuol dire che matematicamente ci troviamo di fronte all’affare del secolo (un multiplo troppo basso potrebbe essere il sintomo di una crisi profonda dell’azienda).
Un’altra tecnica che gli addetti ai lavori utilizzano per valutare se i prezzi di Borsa siano da considerarsi cari o meno è il confronto con i prezzi delle materie prime. L’indice Crb index – calcolato sulla base di un algoritmo di Reuters/Jefferies – sintetizza l’andamento dei prezzi delle commodities. Si tratta di un indice pesato, vale a dire non tutte le materie prime che lo compongono danno il medesimo contributo al calcolo finale (ad esempio l’oro pesa per circa il 7% mentre le materie prime energetiche per circa il 40%). Ma in ogni caso dà la dimensione sulle aspettative degli investitori sulle potenzialità di crescita dell’economia reale, a cui le materie prime sono direttamente agganciate (più aumenta la domanda di prodotti dei consumatori più le aziende devono acquistare materie prime). Quando l’economia gira, i prezzi delle materie prime hanno mediamente una propensione al rialzo.
Bene, se confrontiamo l’andamento del Crb index con l’indice S&P 500 ricaviamo un grafico che svela un profondo divario di performance. I prezzi delle azioni dell’indice statunitense negli ultimi anni sono cresciuti a ritmo più veloce rispetto a quelli delle materie prime. Partendo dal 2019, ricaviamo un +33% per Wall Street a fronte di un -10% delle materie prime. Ciò vuol dire che i prezzi delle azioni non sempre riflettono in toto le prospettive economiche (se così fosse le due linee dovrebbero essere più vicine). Questo perché, molto semplicemente, le banche centrali stanno immettendo una quantità spropositata di liquidità per favorire il rilancio dell’economia. Tendenza che è aumentata nel 2020 per la pandemia.
Da marzo la Federal reserve ha espanso il bilancio (acquistando titoli) per oltre 3mila miliardi di dollari, portando il totale degli asset in portafoglio in area 7mila miliardi. Su una lunghezza d’onda simile viaggia la Bce i cui asset in bilancio hanno superato quota 6mila miliardi. Questa liquidità finisce direttamente sul mercato obbligazionario (le banche centrali comprano prevalentemente titoli di Stato e in minima parte obbligazioni societarie). E indirettamente sul mercato azionario (i gestori di fondi e i grandi investitori sono “costretti” a cercare performance altrove, e quindi sull’azionario, rispetto al mercato obbligazionario che complice gli acquisti delle banche centrali offre oggi rendimenti risicati, quando non addirittura negativi).
Le politiche ultra-espansive delle banche centrati impattano in minima parte anche sulle materie prime, ma solo su quei metalli preziosi (oro e poi in seconda battuta anche argento) che attirano anche una forte domanda di mercato da parte degli investitori finanziari (perché proteggono dall’inflazione e dai rischi futuri di shock finanziari). Le altre materie prime (rame, nichel, ecc.) hanno un mercato fatto tutto di economia reale e quindi non sono impattate dalle banche centrali.
Ecco perché oggi l’S&P 500 si sta allontanando dal Crb index. Perché la moneta stampata delle banche centrali trova il suo canale preferenziale nel mercato azionario. Quando questo finirà (e se mai finirà) non è dato saperlo. Quel che è certo è che per gli analisti fondamentali (quelli che valutano le azioni in base ai bilanci e alle prospettive di crescita delle aziende) sono tempi duri. Le banche centrali hanno distorto il mercato creando un ampio divario tra finanza ed economia reale, tra Wall street e Main street.