Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2020  agosto 12 Mercoledì calendario

Ritratto di Roberto Calderoli

L’orobico senatore Roberto Calderoli, nato odontoiatra, è un interessante agglomerato di antiche e nuovissime culture del manicomio Italia. Viene dall’insurrezione padana che marciò su Roma per farsi subito romana. Ha lo sguardo vivace dei provinciali esentasse che la fanno franca. Il temperamento fumatino dei secessionisti da bar in piazza, dopo il secondo spritz. La risata d’ampiezza celtica coordinata a un rossore che gli imporpora le gote ogni volta che racconta l’ultima trovata al suo pubblico: il tallero padano contro l’euro, i maiali contro l’Islam, le cannoniere contro gli sbarchi. Gli brillano gli occhi quando chiama gli omosessuali “culattoni” e gli immigrati “bingo bongo”, per poi godersi gli applausi con larghi ondeggiamenti della testa. Oppure quando maneggia, di liana in liana, i regolamenti del Senato e addirittura le riforme costituzionali che inaspettatamente la Corte e gli elettori gli bocciano per singolare dispetto.
A forza di pasticci legislativi, riforme patacca, finte leggi bruciate in un falò vero, e imbrogli d’architetture elettorali – la migliore l’ha chiamata “porcata” – si è fatto pavone laureato: “Conosco i regolamenti e le leggi meglio di chiunque altro”. E a cascarci non sono solo i militanti con l’elmo in testa sulla spianata di Pontida, ma anche i più furbi della furba sinistra, cresciuti tra i velluti e le virgole come Luciano Violante, Luigi Zanda, Angela Finocchiaro, che trovano tremendamente chic e assai spregiudicato considerarlo barbaro, ma arguto; un collega eccentrico: persino un razzista potabile, se diluito con il seltz del buon umore. Così che quando chiamò il ministro Cecile Kyenge “un orango”, se la cavò chiedendo scusa “era un pensiero riferito ai suoi lineamenti”, disse. E aggiunse: “Era una battuta per mettere simpatia”. Mentre non era una battuta, ma un intero ragionamento, quando l’altro giorno, in aula, ha detto che “siccome il maschio si accoppia con quatto o cinque donne” porta più voti delle femmine, “che di solito sono più fedeli”. Un arzigogolo di definitiva idiozia che ha annichilito tutti, tranne naturalmente Calderoli. Il quale una volta sola ammise al Corriere della Sera di conoscere il suo perimetro esistenziale: “Su di me non avrei scommesso un soldo”.
C’erano i molari guasti nel suo destino, cominciato nell’anno 1956, a Bergamo, tra i trapani e le carie di una famiglia benestante che fabbrica dentisti: lo sono stati il nonno, il padre, quattro zii e lo diventeranno tre fratelli su otto. Conclusa l’ordinaria giovinezza con la specializzazione in chirurgia maxillo-facciale, fu un incontro straordinario a cambiargli il futuro, quello con la mandibola volitiva di Umberto Bossi che predicava di cavalieri padani alla riscossa: “Taglieremo la gola al sistema da orecchio a orecchio”. Proposito che entusiasmò il giovane chirurgo, come una rivelazione professionale: “È Umberto l’uomo che mi cambiò la vita”. In un attimo passò da cavadenti a consigliere comunale. Dove si accese come tribuno acchiappa gonzi, sua parola d’ordine: “Bergamo nazione, tutto il resto meridione!”. Per poi entrare in Parlamento nel 1992 che fu anno mirabile perché iniziava la dissoluzione della vecchia Repubblica in quella nuova, con la folta schiera degli 80 leghisti appena eletti, tutti scesi dalle valli in pullman con le bandiere e lo stupore di trovarsi tra i bar pieni a mezzogiorno e le piazzette fiorite della primavera romana, dove la politica da sempre si rilassa al sole, mentre su al Nord si fabbricano tondini e smog.
Con lui c’erano l’indimenticato Roberto Castelli, ingegnere acustico, futuro ministro di Giustizia, Francesco Speroni, che da steward di Alitalia con cravatta texana, atterrerà al ministero delle Riforme istituzionali, il giovane Roberto Maroni, sassofonista di Varese e imminente ministro dell’Interno a sua insaputa. Tutti in fila spaesati dietro a Bossi che raccomandava: “Niente appartamenti in centro. Niente trattoria al Pantheon. Niente Tartarughino. So come è fatto questo diavolo di partitocrazia”. Naturalmente tutti si accomodarono nella nuova vita, cambiando al volo automobili, guardaroba e mogli. Intascando tangenti fin dal primo tesoriere, un tale Alessandro Patelli, rinominatosi “il pirla”, per giungere ai fasti diamantiferi di Belsito che pagava i figli, la villetta e le canottiere di Bossi, e arrivare ai 49 milioni di euro imboscati dalla patriottica Lega di Salvini.
L’apoteosi di Calderoli – che fonda un incongruo “Nerone fans Club” – arriva veloce, anche se con qualche inciampo: presidente del partito, vicepresidente del Senato, ministro delle Riforme. Peccato debba dimettersi, anno 2006, per avere mostrato in tv la maglietta con le vignette anti-islamiche, generando scontri e proteste in Libia, con 11 morti davanti al consolato italiano di Bengasi. Passato il lutto, risorge nella baita del Cadore, dove con tutti i crismi istituzionali, le salamelle e il vino portati da Giulio Tremonti redige in una settimana la nuova costituzione federalista, quella della Devolution, smaltita a stretto giro insieme con i vuoti di bottiglia.
Negli anni dell’ultima deriva berlusconiania, pretende il trasferimento di “almeno quattro ministeri al Nord”. E dopo la nascita del governo Monti, si intesta la presidenza del rinato Parlamento del Nord. Due trovate che dentro la stessa Lega giudicano “puttanate intercontinentali”. I colonnelli non gli fanno la guerra perché nel frattempo si è ammalato e ha combattuto la sola battaglia vinta in carriera. Così importante da averlo genuflesso almeno per un po’, convincendolo a sposarsi con Gianna Gancia, dinastia spumanti, stavolta davanti a un prete e non a un druido della foresta come accadde al primo matrimonio, anno 1996, in piena estasi pagana. Rinsavito, sembrava. Pronto per una nuova vita: allevare lupi e famiglia, forse aprire un ristorante in valle, “salumi, vino, formaggi, prezzi modici”, ascoltare Battisti all’alba, lacrimare davanti all’epopea di Braveheart. Piantarla con la pop politica dei lanciafiamme. Farsi dimenticare e dimenticarci. Peccato che invece no.