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 2020  agosto 12 Mercoledì calendario

Kamala Harris, strafiga

Secondariamente, Kamala Harris è una donna. 
Secondariamente, Kamala Harris ha la pelle colorata. 
Ma principalmente Kamala Harris, che ieri sera il candidato democratico alla presidenza degli Usa, Joe Biden, ha annunciato come candidata per il ruolo di vicePresidente, è una strafiga. 
Nella società dell’immagine più determinata a ritenersi non tale, bisogna fingere che questo non conti. 
Che di Hillary non contassero i polpaccioni, o di Trump la pelle butterata e i capelli assurdi. 
Anzi no: l’estetica di Trump si può rimarcare, perché con gli impresentabili si può essere lettori di Keats e far coincidere il bello e il buono (e quindi il brutto e il cattivo). 
Delle donne guai, le donne bisogna fingere che siano puro spirito. Della sinistra più ancora. D’una donna di sinistra, figuriamoci. Abbiamo finto per otto anni che la presidenza Obama sanasse il rapporto dell’America con gli afroamericani, che avesse messo fine al razzismo e al pregiudizio. Abbiamo finto per otto anni che la vittoria di Obama fosse il riscatto dei derelitti, e mica il perfezionamento di quel film di Virzì la cui protagonista guardava con disprezzo i normali dicendo «Siete brutti, siete poveri». Obama era una beatlemania, non l’affermazione della varietà razziale ma quella della gente bellissima. 
Non è che l’annuncio di Harris come candidata vice sia esattamente una sorpresa: è da quando si era ritirata come candidata alla presidenza (era dicembre) che i saperlalunghisti dicevano che l’avesse fatto perché il buon vecchio Joe le aveva promesso il posto da vice. E non è che l’entusiasmo espresso ieri sera dalle classi influenzialmente chiacchieranti americane sia esplicitamente per la sua fighezza. Figuriamoci: è perché donna, è perché di razza mista, è perché persona seria. 
È perché pensa cosa potranno essere i dibattiti vicepresidenziali, più appassionanti d’un falò di confronto a Temptation Island, tra lei e Mike Pence, uno che per etica personale o convinzioni religiose o perversioni bislacche non si dà il permesso di frequentare in occasioni sociali donne che non siano la moglie: pensa cosa sarà doversi far rosolare da Kamala, senza correre a piangere dalla mamma. 
È perché non si vede l’ora di guardare Maya Rudolph che la imita al Saturday Night Live (Maya Rudolph è una comica particolarmente talentuosa, anche se noi ancelle del patriarcato di lei invidiamo soprattutto il matrimonio con Paul Thomas Anderson, regista di genio nonché sommo figo: ve l’avevo detto che il tema era la fighezza). 
È perché è stata procuratrice della California, un territorio che porta un sacco di voti (il comunicato di Trump ieri ha definito il moderato Biden una copertura per l’estremismo radicale rappresentato da Kamala, una signora con filo di perle e camicia bianca che sta alla sinistra che vuole togliere i finanziamenti alla polizia come Francesco Saverio Borrelli stava a Casarini – scusate l’esempio novecentesco). 
C’è un filmato eloquente d’un anno e mezzo fa. Kamala sta interrogando (un giornale italiano direbbe: asfaltando) William Barr, procuratore generale che testimonia nell’indagine su Robert Mueller. La prima domanda della Harris riguarda i pizzini presidenziali: hanno, Trump o qualcuno alla Casa Bianca, suggerito che Barr aprisse un qualche fascicolo? 
Mi è tornata in mente vedendo Petra, la serie (su Sky a settembre) di Maria Sole Tognazzi su un’ispettrice genovese interpretata da Paola Cortellesi (tratta dai romanzi di Alicia Giménez-Bartlett). Nella prima puntata a Petra, che fino a tre minuti prima lavorava in archivio, dicono che un sospetto di stupro ha confessato. Sfidando ogni sospensione dell’incredulità, la signora entra nella stanza dell’interrogatorio, lo umilia, lo riduce in lacrime, e in due minuti gli fa ritrattare la confessione, tutto questo senza mai alzare la voce o muovere un muscolo della faccia. 
Kamala (accento sulla prima “a”, assicurano i parlanti nativi) fa uguale. Barr balbetta, dice che non sa cosa intenda con «suggerito», come gli studenti asini che cercano di prender tempo, non lo dice ma si vede che pensa «ho la gola secca», lei implacabile e senz’agitarsi suggerisce sinonimi, “insinuato”, “stimolato”, lui traballa come l’interrogato di Petra, e come lui si sta chiaramente chiedendo cosa ci faccia lì, e quando sia stato che questa società abbia permesso alle strafighe di mettere in difficoltà il mediocre medio. 
Senza che mai le si accartocci la messinpiega così fintamente naturale, senza che le si stropicci la camicetta di seta che copre quasi completamente il doppio filo di perle, due anni fa Kamala, sempre al Senato, interroga Brett Kavanugh, che potrà anche stare trent’anni alla Corte Suprema ma verrà ricordato sempre e solo come quello che scusava le accuse di violenza sessuale relative alla sua giovinezza con «Mi piaceva molto la birra». È sempre la stessa scena, sempre Petra (qualcuno chieda alla Tognazzi o alla Giménez se per caso Kamala è stata il modello della loro eroina): lui che si agita, e lei che, con mitterrandiana forza tranquilla, rimarca «Le ho fatto una domanda molto precisa: sì o no?». 
Poi magari perderanno lo stesso, magari della fighezza l’elettorato brutto e povero (e sempre più compiaciuto di percepirsi povero e vittima, mentre s’instagramma da una spiaggia) non ne può più, magari Obama è stato un’overdose, magari non vogliamo più vedere politici in bianchennero strafighi anche mentre si fotografano in quarantena, magari non funziona. 
Però era dal 2008 che non vedevamo una campagna elettorale in cui il confronto fosse tra fotogenia e no, tra fighezza senza sforzo e fronti imperlate, tra quel che gli americani chiamano «a natural» e qualcuno che più si sbatte meno è fascinoso. Sarà com’essere dodici anni più giovani, se non altro.