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 2020  agosto 12 Mercoledì calendario

Entro il 2040 il N.Y. Times non uscirà più su carta

Il 27 settembre del 1931, a pagina 2, il New York Times lanciò con enfasi le tesi di Carl Ackerman, preside della Scuola di Giornalismo alla Columbia University, allora come adesso considerata la migliore al mondo. «Il giornalismo – sosteneva il professor Ackerman, applaudito dal Times – stabilizzerà il mondo, lasciando che gli uomini e le donne si conoscano meglio» e, via via, eliminando guerre, rivolte, ingiustizie. «I fatti, uniti alle idee dalla stampa, saranno più forti delle armi, della finanza, della scienza, perché solo la professione del giornalismo unisce i cittadini» annunciava sicuro Ackerman. Quasi 90 anni dopo, una guerra mondiale atomica, infinite rivoluzioni e sommosse, colpi di stato e con la credibilità dei media al minimo storico nell’era della disinformazione, la previsione mancata di Ackerman e del New York Times dovrebbe indurre alla cautela sull’informazione, sempre capace, nel bene e nel male, di sorprenderci.
Colpisce dunque l’affermazione dell’amministratore delegato uscente del New York Times, Mark Thompson, che prevede, sicuro come Ackerman, la resistenza dell’edizione cartacea del giornale «Per altri dieci o quindici anni», dicendosi però «Sorpreso nel caso in cui le copie di carta arrivassero fino al 2040». Thompson, che lascerà l’incarico a Meredith Levien, ha guidato una crescita straordinaria del quotidiano di New York, trasformato in brand globale, con un boom in Borsa del 400% e 5,7 milioni di abbonamenti digitali, contro il solo milione del 2015. Per il 2025 l’obiettivo è a 10 milioni, non solo negli Usa ma ovunque, grazie all’inglese, lingua globale. Gli abbonati al formato tradizione sono 900.000 e Thompson calcola che, anche senza pubblicità, reggeranno ancora nel prossimo futuro.
L’elezione del presidente Donald Trump, nel 2016, e la sua campagna di terra bruciata contro i «media fake news» hanno aiutato, Thompson lo riconosce, il Times, diventato una sorta di quotidiano di partito dello schieramento ostile al presidente. Dal punto di vista del business invece, e qui i media italiani avrebbero, da tempo, dovuto prestare maggiore attenzione, Thompson disegna una strategia «fondata sugli abbonamenti, che non passi solo dalla carta al digitale, ma soprattutto dalla pubblicità agli abbonamenti, guardando insieme a lettori e mercato». Ad aiutare il Times e altri giornali, non è però l’effetto di pacificazione sociale previsto nel 1931 da Ackerman bensì, al contrario, la lacerazione che la crisi economica 2008, il populismo seguito a Trump, Brexit e ai movimenti in Europa, e ora la pandemia Covid-19, hanno indotto nelle nostre democrazie: «Il drammatico notiziario ci sostiene – confessa Thompson, che già recentemente aveva riassunto queste tesi in un’intervista alla Serena Danna del sito Open – i nostri paesi sono spaccati da opposte forze politiche, globalizzazione, automazione, cambio del clima, emigrazione. Anche le nuove elezioni non ci riporteranno ai pacifici tempi del 1958. Chiunque perda nel 2020 parlerà di voto illegale, e follia, incertezza, tensione e rabbia continueranno. Caos e battaglie sociali si perpetueranno».
Nelle redazioni internazionali l’uscita di Thompson, oggi uno dei manager più rispettati, ha sollevato reazioni discordi. Chi l’ha vista come pessimistica profezia, in vent’anni addio alla carta, e chi invece, magari memore che nel 2007 il nostro Vittorio Sabadin aveva dedicato un suo saggio a L’ultima copia del New York Times (Donzelli), l’ha interpretata come speranza, titoli e pagine da sfogliare ancora per una generazione.
Chi ha ragione? L’innovazione tecnologica è imprevedibile e brutale, pochi prevedeva il boom social media o la piaga disinformazione e le mutazioni sociali altrettanto intrattabili. Il 2020 ci ha dato la pandemia, le rivolte antirazziali Usa, il piano di investimenti europeo, la stretta politica in Cina, le manovre russe, e ciascun fenomeno si riflette sui media, con conseguenze brusche e impensabili. Ho lavorato a lungo, come mio padre prima di me, nei giornali di carta e comprendo bene il romanticismo che lega al tatto, all’odore, al ritagliare un articolo e conservarlo a ingiallire, magari tra le pagine, altrettanto nobili, di un libro rilegato. Ma, ahinoi, non saranno questi sentimenti ad essere decisivi.
Il tema non è, o almeno non è più, se e come la carta sopravviverà. Ci sono lettori e ceti culturali legati a questo formato e terranno duro, così come i libri han resistito all’ebook. Ma la stragrande maggioranza del pubblico cercherà informazioni sui tablet, computer, cellulari e là i media dovranno investire ed agire. La sfida non è dunque tra testate all’antica e siti web, ma tra giornalismo di qualità e disinformazione corriva, vuoi pilotata da lobby politiche o economiche occulte, vuoi diffusa in cerca di un click in più.
La pandemia ha dimostrato che la cattiva informazione uccide, letteralmente, con i telespettatori dei canali negazionisti ad ammalarsi e morire in percentuali maggiori di quelli che seguivano network seri. Difendere l’informazione di qualità, Thompson ne è cosciente, non significa lavorare a business model diversi, ma difendere la democrazia stessa, quell’«intesa sociale» che Ackerman, invano, agognava.
Del resto, il 1958 che Thompson celebra come pacifico e bonario, era invece fucina rovente di cambiamenti radicali, e solo la memoria lo addolcisce e stempera.