Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2020  agosto 11 Martedì calendario

Intervista a Brunello Cucinelli

Ha trascorso il lockdown a Solomeo, il borgo medioevale cui ha ridato vita. Ci è andato ad abitare nel 1982, poco dopo il matrimonio con Federica Benda che gli ha dato due figlie, Camilla e Carolina. Il restauro è iniziato nel 1985 e per 25 anni ha assorbito molte delle sue energie equamente divise tra lavoro, famiglia, studio e cura dell’umanità. Su questo ambizioso progetto per la bellezza si è poi innestato quello per la nascita della cosiddetta «Periferia amabile» cominciato nel 2014 con l’acquisto di sette enormi edifici industriali pazientemente smantellati e sostituiti da 70 ettari di alberi da frutto, orti, prati e giardini: il rasserenante panorama umbro che fa da sfondo ai grandiosi ritratti di Pinturicchio, Perugino e il giovane Raffaello. Proprio per questo Brunello Cucinelli è conosciuto come lo stilista e imprenditore filosofo e ha ricevuto ben due lauree honoris causa in filosofia. La prima gli è stata conferita nel 2010 dall’università di Perugia, la seconda otto anni dopo da quella di Messina.
Il bello è che lui sostiene candidamente di aver frequentato una sola facoltà: il bar del paese in cui ha trascorso un sacco di tempo prima di diventare l’umanista della moda. Accadde nel 1978 quando fondò l’azienda su un’idea geniale nella sua semplicità: coloriamo il cashmere con le tinte più belle del creato, usciamo una buona volta dalla rassicurante triade del classico grigio, cammello e beige. Il resto è storia, una gran bella storia di successo italiano nel mondo. Quotata in Borsa dal 2012, la Brunello Cucinelli S.p.A. ha cinca 2000 dipendenti (200 dei quali in Cina) e nel 2019 ha fatturato 607,8 milioni di euro. Per l’anno in corso bisognerà fare i conti con la pandemia che gli ha ispirato un nuovo progetto per l’umanità.
Di cosa si tratta?
«Come tutti abbiamo chiuso i negozi per 2/3 mesi ritrovandoci quelle rimanenze che noi chiamiamo surplus. Ci siamo chiesti come riutilizzarle perché io detesto gli sprechi e per natura credo che la moda debba avere sempre cose nuove. Per me è impensabile riproporre gli stessi capi di questa stagione nella prossima, lo trovo irrispettoso verso i nostri clienti. Così mi sono chiesto perché non donare all’umanità merce invenduta per un valore di 30 milioni di euro, il riutilizzo del nuovo. Abbiamo fatto un consiglio interno con i nostri partner e 6 membri della famiglia: 10 persone in tutto. Per esempio se il nostro partner di Tokyo ci dice di conoscere due piccole associazioni cui vorrebbe destinare dei pacchetti con 30/40 capi ciascuno, noi c’impegnamo a spedirli come facciamo con le boutique, con i capi nelle taglie e nei pesi giusti per la destinazione, tutti imbustati, stirati e con un’etichetta speciale: Brunello Cuccinelli for Umanity».
Ma la gente poi si può rivendere la merce?
«No, non ci dev’essere nessuno possibilità perché verifichiamo. Tutte queste associazioni devono essere garantite e mettersi d’accordo con noi perché il progetto non nasce per le grandi onlus dove i capi vanno a finire in un container. Io vorrei creare una rete mondiale di partner e amici che offrono un piccolo sostegno alle famiglie. È tutto molto curato nei particolari, nulla viene lasciato al caso. Questo è un momento speciale nella storia dell’umanità, siamo stati colpiti da una grande grandinata, ma i contadini dicevano che la grandine non porta carestia».
Secondo lei il coronavirus è paragonabile a una grandinata?
«Penso che sia in atto una grande disputa tra la terra e la biologia. Senofane ci ha educato dicendo che dalla terra tutto deriva e io credo che la terra ci abbia chiesto aiuto. Abbiamo vissuto un’epoca molto dolorosa per i grandi valori della famiglia e in qualche maniera dell’umanità. C’è una bella espressione di Omero che fa un inno ai grandi re tenuti prima a depositare le armi e poi il dolore. Insomma credo che il mondo stia andando verso il tempo nuovo e che la pandemia ci porti due cambiamenti forti. Il primo dovrebbe essere una maggior capacità di ascolto verso le persone amabili e gentili perché quando l’essere umano è addolorato, impaurito e spaventato non è troppo disposto ad ascoltare persone dure e arroganti. Il secondo cambiamento è che dopo questa tragedia probabilmente non gireremo le spalle alla povertà e staremo un po’ più attenti ai consumi: non penso che nessuno abbia gettato qualcosa dal frigorifero nei mesi del lockdown. D’ora in poi quando andremo ad acquistare qualcosa non lo acquisteremo con l’idea di consumare ma penseremo a dove e come è fatto, saremo più attenti».
Non le sembra una bella utopia?
«Sinceramente no. Con i nostri comportamenti insensati abbiamo provocato danni irreparabili alla terra e alla natura. Forse adesso ce ne stiamo rendendo conto a livello globale. Me ne accorgo da tanti piccoli segnali. Ad esempio noi abbiamo sempre offerto ai nostri clienti un servizio di riparazione a 360 gradi: se ci porti un vecchio pullover tarmato noi te lo laviamo e rammendiamo, lo rimettiamo a nuovo. Questo servizio non è mai stato richiesto come adesso, abbiamo sempre più persone che ci mandano un cappotto per cambiare la fodera rovinata o cose del genere. Insomma sta imponendosi una nuova cultura che rilancia l’utilizzo consapevole delle cose».
Ma in termini strettamente imprenditoriali come è andata?
«Abbiamo chiuso l’azienda una settimana prima del lockdown perché ci siamo spaventati. Ho detto ai miei: recupereremo tutto e non licenzieremo nessuno a livello mondiale, avrete garantito il vostro compenso ma quando potremo tornare a lavorare vi chiederò di fermarvi mezz’ora al giorno in più fino ad agosto. Non è stato necessario: in tre mesi abbiamo recuperato totalmente la produzione invernale e siamo riusciti a fare fisicamente anche le nuove collezioni da presentare negli show room di Tokyo, Shanghai, Milano. Posso dire con orgoglio che oggi siamo la stessa fabbrica che eravamo il 24 febbraio, abbiamo recuperato il tempo perduto con uno slittamento di un mese».
Che precauzioni ha preso in azienda?
«Ogni 15 giorni si preleva il sangue per stare più tranquilli, non solo per i dipendenti ma anche per tutte le persone che ci vengono a trovare. Chiaramente non è obbligatorio ma tutti lo vogliono fare. Facciamo tampone e test in 40 minuti e questo fa bene a tutti, lavoriamo più sicuri».
Ma lei non si arrabbia mai?
«Lavoro per non essere iracondo, non porta a nulla. Se avessimo a disposizione un’altra vita magari potremmo anche sprecare del tempo arrabbiandoci, ma così... E poi con chi ce la possiamo prendere per questa situazione che stiamo vivendo? La storia di cui sono amante insegna che le epidemie sono sempre esistite. Pericle morì di peste nel 432 a.C. Marco Aurelio aveva la peste in casa e lo stesso dicasi per i Promessi Sposi. Il creato ha le sue leggi che noi dobbiamo imparare ad accettare».
A volte però è dura...
«Io mi sono abituato a prendere quel che arriva dal cielo. Nel bene come nel male. Quando ho detto ai ragazzi di donare il surplus, mi chiedevano se fossi sicuro e io ho detto: ma perché non dobbiamo donare, non può essere sempre tutto positivo, prendiamo questo e speriamo di rinascer».
Qual è il paese che le piace di più oltre all’Italia?
«Sono in Italia e mi sento italiano al 100 per 100, non potrebbe essere altrimenti. Però quando vado in Mongolia voglio mangiare mongolo e conoscere le loro abitudini. Lo stesso dicasi per la Cina e per qualunque altra nazione al mondo: mi piace molto il rispetto di culture e tradizioni altrui. Certo voglio vivere nel mio Paese e rispettare le leggi del mio governo. Vorrei trascorrere il mio tempo terreno da custode di questa grande bellezza italiana».