la Repubblica, 11 agosto 2020
Così il digitale aumenta il divario tra le due Italie
Si fa presto a dire che l’Italia digitale è indietro. Che ci sono tante parti del paese dove la rete veloce ancora non arriva. Che gran parte delle scuole non sono connesse. Si fa presto a dire che siamo ultimi in Europa per le competenze digitali dei cittadini (lo certifica l’ultima pagella dell’Unione Europea, giugno 2020). In realtà quando parliamo del divario digitale italiano non c’è l’Italia, ci sono tante “Italie”: il nostro ritardo complessivo è fatto da situazioni diverse in cui incidono diversi fattori: l’età, il genere, il titolo di studio. Ma più in generale quando parliamo dell’Italia digitale esiste, come per il resto del paese, un Nord e un Sud: esistono regioni non lontane dalla media europea ed altre che invece sembrano vivere in un film in bianco e nero; e inoltre esistono province che, pur inserite in contesti arretrati, sono riuscite a mettersi in marcia ottenendo risultati clamorosi e brillanti.
Non accade per caso: la digitalizzazione è in parte un processo tecnologico; l’altra componente è fatta dalle competenze delle persone. Si tratta di una differenza fondamentale con altre innovazioni rivoluzionarie come per esempio l’elettrificazione di un secolo fa che non richiedeva particolari competenze per goderne: bastava accendere un interruttore o al massimo inserire una spina nella presa elettrica. Internet è diverso, non basta portare la banda ultralarga perché qualcuno la usi: Internet devi imparare ad usarlo e devi anche sapere quali rischi e quali opportunità ci sono nel navigare. Si può vivere senza? È una domanda mal posta: non si tratta di voler essere moderni a tutti i costi o, al contrario, dire che “si stava meglio prima” e ostentare uno snobismo analogico: gli indicatori sulla diffusione e l’uso di Internet sono fortemente correlati alla crescita economica. Dove Internet è più utilizzato il Pil è più alto; e quindi dove il Pil è più alto, Internet è più utilizzato. Non è questa la sede per stabilire quale sia la causa e quale l’effetto, ma la correlazione esiste, chiara e forte; e non esiste per esempio, sull’uso del social, dove invece si verifica un fenomeno contrario, nel senso che il maggior utilizzo dei social si riscontra in aree depresse dal punto di vista socio-economico.
Queste e altre considerazioni sono contenute nel primo rapporto Censis sullo stato della trasformazione digitale in Italia. È stato realizzato poco prima del lockdown, che pure è stato un potente acceleratore, non solo delle competenze di molti, ma della consapevolezza di tutti. Tutti adesso hanno capito che una società digitale evoluta è la condizione necessaria per la resilienza. Un paese dove Internet sia diffuso ed utilizzato, resiste più agevolmente anche ad una pandemia: le scuole non chiudono, molti lavori non si fermano, il commercio continua e i rapporti umani si mantengono.
Il Rapporto Censis è stato commissionato dall’Operazione Risorgimento Digitale, una iniziativa comune di una trentina di aziende tecnologiche e associazioni per affrontare assieme il divario digitale italiano e se non proprio chiuderlo (la distanza oggi è davvero troppo ampia), almeno ridurlo significativamente. Del resto non c’è scelta: la crescita dell’Italia, la possibilità che il recovery plan europeo abbia successo passa anche da qui, da un “upgrade” del capitale umano complessivo del paese. Per questo il Rapporto Censis sullo stato della trasformazione digitale va letto con attenzione. Perché ci dice da dove partiamo in questa rincorsa.
Quello che pubblichiamo oggi in anteprima su Repubblica non è un ordine di arrivo, una classifica finale: piuttosto una “pole position”, una griglia di partenza. La metafora della gara di Formula 1 non è stravagante: con il decreto semplificazioni, in questi giorni in conversione al Senato, il governo si è dato un obiettivo ambiziosissimo: rendere digitali tutti i servizi della pubblica amministrazione entro il 28 febbraio 2021. Vuol dire che i cittadini di qualunque comune dal 1 marzo devono, se lo vogliono, poter fare tutto online. Dal punto di vista dei numeri si tratta di fare una trasformazione rapida come un time-lapse: dopo 15 anni di rinvii e false partenze, in 200 giorni dobbiamo provare a recuperare il tempo perduto. Non accadrà con una bacchetta magica: serve uno scatto in avanti, di tutti. Ne saremo capaci? Intanto vediamo da dove partiamo. Il Censis ha costruito due ranking: il primo misura il progresso socio-economico delle 281 regioni europee. Fra le italiane in testa le province di Trento e Bolzano, Emilia- Romagna, Lombardia e Friuli Venezia Giulia: ma la prima italiana è al 164esimo posto, e occupiamo l’ultimo posto assoluto, con la Sicilia. Se guardiamo solo agli indicatori digitali, non cambiano le prime posizioni italiane ma partiamo dal 213esimo posto; e in fondo troviamo la Calabria. Il Censis ha poi realizzato un altro ranking, provinciale, prendendo in considerazione dati di utilizzo di Internet ancora più puntuali: come la diffusione di SpiD (l’identità digitale pubblica); la possibilità di pagare online i servizi pubblici (Pago-PA); il numero di imprese che hanno ottenuto un voucher per digitalizzarsi o per assumere un “innovation manager”; i domini web registrati e i siti che offrono ecommerce. La pagella digitale recita: prima Milano, poi Roma, Bologna e Firenze; nella top ten, con Cagliari, Torino e Pisa, a sorpresa anche Modena e Ascoli Piceno al quinto e sesto posto: All’ultimo posto, Rieti, ma le altre nove posizioni di coda sono tutte occupate da province di Sicilia, Calabria e Campania. Alcuni dettagli: nella classifica che tiene conto solo dei servizi della pubblica amministrazione al primo posto c’è Ravenna. Trieste, che complessivamente galleggia a metà classifica, è al terzo se consideriamo solo l’utilizzo di Internet da parte dei cittadini (segno che PA e imprese non sfruttano appieno il capitale umano territoriale). Il secondo posto per la trasformazione digitale delle imprese, dietro Milano, va a Pescara per motivi che andrebbero indagati ma che confermano che la trasformazione digitale non si riceve per investitura divina, non si cala dall’alto con una legge, ma dipende dalla buona volontà delle donne e degli uomini di un comunità.