la Repubblica, 11 agosto 2020
Arrestato Jimmy Lai, editore delle rivolte di Hong Kong
«Sono un piantagrane, ma uno con buona coscienza», diceva qualche mese fa al New York Times il 72enne Jimmy Lai. E un bel piantagrane è pure Apple Daily, il tabloid che Lai ha fondato a sua immagine, reinvestendoci i milioni guadagnati con i vestiti e rendendolo uno dei megafoni della battaglia per la democrazia di Hong Kong, contro l’odiato Partito comunista. A maggio Lai si era pure aperto un profilo Twitter, da cui cannoneggiava Pechino e la nuova legge sulla sicurezza nazionale stretta al collo della città. I quotidiani di regime cinesi lo avevano avvertito: quei cinguettii a favore di Trump e contro Xi Jinping erano «la prova della sedizione». Lui aveva risposto con pernacchia: la potente Cina considera dei tweet una minaccia alla sicurezza? «Questa è nuova, anche per me». Ma nuova è anche la realtà di Hong Kong, Lai lo sapeva. Ieri mattina la polizia si è presentata a casa sua, arrestandolo in nome della nuova legge. E qualche minuto dopo oltre duecento agenti hanno marciato in file ordinate nell’edificio che ospita la sua società editoriale Next Digital e la redazione di Apple Daily, perquisendolo per ore e arrestando quattro dirigenti.
Così la nuova norma a difesa della patria, entrata in vigore a Hong Kong lo scorso 30 giugno, colpisce il primo obiettivo illustre (e annunciato). Perché Lai è uno dei simboli, dei leader e dei finanziatori dell’attivismo democratico, l’unico magnate del Porto Profumato a essere schierato contro Pechino. Un figlio della Cina, nato a Canton ma intrufolatosi nell’ex colonia britannica a 12 anni nascosto nella barca di un pescatore. Era l’epoca del grande sviluppo e dopo aver lavorato come operaio, Lai ha fondato la sua fabbrica di vestiti, quindi un marchio d’abbigliamento, Giordano. Dagli stracci alla ricchezza, come tanti cinesi. Fino a Tiananmen, la strage che lo converte all’editoria e all’anticomunismo militante. Lai inizia a pubblicare articoli contro «i macellai di Pechino», vende Giordano per 320 milioni di dollari prima che il governo cinese lo boicotti, reinveste tutto in Next Digital e Apple Daily.
Oggi il tabloid è pubblicato anche a Taiwan, dove difende la sovranità dell’isola dalle mire cinesi. E durante le proteste di Hong Kong dello scorso anno, poco rigoroso e molto spregiudicato come sempre, è stato l’organo del movimento per la democrazia, a cui ha pure girato parte dei ricavi. I media di Stato cinesi, che da tempo accusavano «Lai il ciccione» di essere un agente della Cia e un «traditore», hanno alzato il tiro, inserendolo nella “nuova” Banda dei Quattro, versione hongkonghina dei nemici del popolo di epoca maoista. Mentre gli altri e ben più miliardari tycoon di Hong Kong, a cominciare dal decano Li Ka-shing, facevano appello alla calma, Lai partecipava a tutte le marce, autorizzate e non, finendo arrestato due volte.
A luglio del 2019, in visita negli Stati Uniti, aveva incontrato il vicepresidente Pence e il segretario di Stato Pompeo, alimentando nuove accuse di collusione con il nemico. E a cavallo dell’entrata in vigore della legge, mentre tanti attivisti misuravano le parole, lui ha continuato a piantare grane. Ha definito «la cosiddetta interferenza americana la nostra unica salvezza». E su Twitter, tra le altre cose, ha chiamato il Partito comunista un «clan di mafiosi non civilizzati».
Le motivazioni dell’arresto sono proprio «collusione con un Paese straniero e sedizione». Tra i sette fermi, anche due dei suoi figli. L’immagine ben coreografata degli agenti che entrano nella sede dell’ Apple Daily completa l’intimidazione. Secondo la polizia l’obiettivo della perquisizione erano gli uffici amministrativi, secondo i giornalisti anche le loro scrivanie sono state controllate. Oggi il tabloid uscirà regolarmente e una campagna di sostegno a Lai lanciata sui social della protesta ha portato migliaia di persone ad acquistare le azioni di Next Digital, che hanno chiuso la seduta con un fantasmagorico rialzo del 200%. Ma l’impressione dopo il suo arresto è che l’attacco delle autorità alle libertà politiche e di espressione sia entrata in una nuova fase. In serata anche Agnes Chow, 23 anni, giovane attivista al fianco di Joshua Wong nelle proteste studentesche per l’autodeterminazione di Hong Kong, è stata arrestata con l’accusa di «incitamento alla secessione». Proprio Wong potrebbe essere il prossimo. Intanto, dopo che gli Stati Uniti hanno sanzionato undici funzionari cinesi responsabili della stretta sulla città, ieri Pechino ha risposto sanzionando altrettanti politici americani.