Corriere della Sera, 11 agosto 2020
La poesia civile che resiste al passare del tempo
Uno dei misteri più affascinanti della letteratura è il rapporto tra il successo e il valore di un libro. In passato si riteneva snobisticamente che il successo fosse sinonimo di scarsa qualità, ormai si tende a pensare che ci sia una relazione direttamente proporzionale tra le due cose. Ma la domanda inevitabile è: quanti degli scrittori che oggi vengono considerati giganteschi resteranno? Lo scarto tra i critici e i lettori comuni è proprio qui. I primi dovrebbero cogliere l’originalità di un’opera e scommettere sul lungo periodo, orizzonte che giustamente non può interessare ai secondi. Nel 1965 Giovanni Arpino, in una rubrica che teneva sul settimanale «Tempo» (la raccolta, Lettere scontrose, è appena uscita per minimum fax), si rivolgeva a Tommaso Landolfi come a uno degli scrittori più schivi e più autorevoli dell’epoca: e poneva alcune questioni relative alla società letteraria dedita, più che al tormento delle «sudate carte», alle crescenti sirene televisive e autopromozionali. Oggi lo spaesamento di Arpino suona insieme visionario e ingenuo, ma rimane la domanda implicita che sottostà alla sua lettera: che cosa resterà di Landolfi e della sua altera ritrosia e che cosa degli altri che si agitano tanto? Landolfi, allora, non era quel che si dice un autore da classifica, ma nessuna antologia futura avrebbe rinunciato a dedicare un capitolo alla sua inventiva straordinaria. Altri, che a quel tempo andavano per la maggiore, sarebbero finiti nel dimenticatoio. Fatto sta che non possiamo sapere se i successi stratosferici di oggi siano il segno di una qualità capace di sopravvivere. Tutti questi pensieri sulla giustizia e l’ingiustizia della sorte letteraria si accendono ancora di più quando capita di leggere un grande autore del passato che non è stato baciato da una particolare fortuna in vita ma la cui lettura sa resistere al passare del tempo. Fabrizia Ramondino è tra questi, per cui va consigliato, in un momento in cui si parla tanto di scuola, il suo L’isola dei bambini, riproposto dall’editore e/o a dodici anni dalla morte della grande scrittrice napoletana. La quale, mentre Arpino scriveva la sua lettera immaginaria a Landolfi, stava vivendo senza esibizionismi un’esperienza di pedagogia di strada nelle zone più povere di Napoli. Ne sarebbe venuto fuori questo libretto dove il resoconto dell’impegno sociale si sposa miracolosamente con la poesia. E dove hanno voce i piccoli, che parlano (per lo più in dialetto) una loro lingua di vita, di abbandono, di dolore e di morte. Cose vere, poetiche, che meriterebbero se non il successo clamoroso almeno un po’ di rispettosa ammirazione civile: «O pate nun magnava. Jettava ‘nu maccarone accà e ‘nu maccarone allà. Magna’ nun vuleva. Po’ facettero ‘o funerale e po’ finette».