Corriere della Sera, 11 agosto 2020
Intervista a Ricardo Franco Levi
Una settimana a caso, la 29ª dell’anno, nella classifica Gfk dei 10.000 libri più venduti in Italia. Il primo, Riccardino di Andrea Camilleri, ha totalizzato 68.808 copie. L’ultimo 29. Solo che i titoli fermi a questo risultato sono 227 e 331 hanno venduto appena una copia in più. Altri 7.425 non superano le 100 copie. Su questo poco roseo panorama vigila Ricardo Franco Levi, da tre anni presidente dell’Aie (Associazione italiana editori), dopo essere stato per più di due lustri al fianco di Romano Prodi, prima a Palazzo Chigi e poi alla Commissione europea. Parlamentare dell’Ulivo e del Pd per due legislature, ha legato il suo cognome alla legge che tutela i libri, vietando gli sconti superiori al 15 per cento sul prezzo di copertina, con i quali Amazon e i supermercati strozzavano i piccoli editori. Gli è venuto naturale: la vita stessa della sua famiglia è un romanzo, compendiato nel nome Ricardo e nel nomignolo Ricky.
Per i suoi colleghi giornalisti lei è il Refuso, per via di quell’unica «c».
(Ride). «Lo apprendo da lei. Mi chiamò Ricardo mia mamma. Di padre basco e madre tedesca, viveva a Buenos Aires e parlava spagnolo. Per papà invece ero Ricky, come il figlio di una coppia che gli diede asilo in Sudafrica. Sono nato in Uruguay, ma abitavamo in Argentina».
Suo padre vi era andato per lavoro?
«No, per non finire nei campi di sterminio nazisti. Nel 1938, all’avvento delle leggi razziali, mio nonno Enzo, avvocato antifascista di Modena, gli ordinò di rifugiarsi in Africa orientale. Quando le persecuzioni antisemite arrivarono anche nelle colonie, papà fuggì in Sudafrica. Siccome il Paese faceva parte del Commonwealth, alla dichiarazione di guerra contro l’Inghilterra scappò in Sudamerica, dove lo raggiunse tutta la famiglia».
Quando e in che modo?
«Nel 1943, dopo un viaggio affannoso attraverso Francia, Spagna e Portogallo, imbarcandosi sull’ultima nave che solcava l’Atlantico. Il nonno, che era stato volontario nella Prima guerra mondiale, tornò malato dall’esilio il 2 giugno 1946 per il referendum. Si recò direttamente al seggio, dove fu tranquillizzato: “Vada a casa, avvocato, si vota anche domani”. Scelse la repubblica. Non perdonava alla monarchia le leggi contro gli ebrei».
I suoi genitori quando rimpatriarono?
«Nel 1952. Io avevo 3 anni. Papà disse: “Mi sono salvato da Mussolini, non resto in Argentina sotto Perón”. Si dedicò ai commerci internazionali, per mezzo secolo fu uno dei più importanti trader con la Russia. Ricomprò le terre del Modenese che mio nonno era stato costretto a cedere per ordine dei fascisti e aprì un’azienda agricola modello».
Che vendeva le mucche a Enzo Biagi, me l’ha raccontato la figlia Bice.
«Lui e Biagi si conobbero grazie al fratello più piccolo, Arrigo Levi, già direttore della Stampa. Papà era del 1917, mio zio è del 1926. Gli voglio un gran bene. Gli unici due maschi di sette fratelli».
I libri sono nel Dna della famiglia.
«Come le lingue. I genitori ci parlavano in inglese, io e mio fratello rispondevamo in italiano. Lasciata l’Argentina, accantonai lo spagnolo: lo ripresi solo a 18 anni. Il francese lo imparai in collegio a Losanna. Vi fui spedito alla fine delle elementari perché soffrivo d’asma».
Gli italiani leggono molto poco.
«Escludendo i testi scolastici, 4 su 10 non aprono neppure un libro all’anno. Non va dimenticato da dove veniamo: per combattere l’analfabetismo, nel 1960 l’Italia dovette affidarsi alla Rai, al maestro Alberto Manzi e al suo “Non è mai troppo tardi”. Ma la statistica ricorda quella del pollo nella poesia di Trilussa».
Vale a dire?
«Il tasso di lettura al Sud è circa la metà rispetto al Nord. Una spaccatura della società, un’emergenza nazionale».
Allora chi tiene in piedi l’editoria?
«I lettori forti, che comprano un libro al mese. Sono appena il 14 per cento. Ora però la stupirò: considerando tv, cinema, musica, giornali e libri, qual è la prima industria culturale nel nostro Paese?».
Non saprei, mi stupisca.
«Tutti sono indecisi fra le prime tre. Invece è l’ultima. L’editoria libraria vale otto volte il cinema e cinque-sei la musica, con un fatturato di oltre 3 miliardi. E benché dia lavoro a 80.000 persone, in passato non ha mai avuto aiuti pubblici, a parte i sostegni erogati ai lettori: l’App18 per i diciottenni, la Carta del libro che ha stanziato 16 milioni di euro per le famiglie, i 30 milioni alle biblioteche. Adesso il governo darà 10 milioni di euro ai piccoli editori».
E la legge Levi dove la mette?
«Ha solo l’obiettivo di garantire condizioni di equità sul mercato. Nel Regno Unito non esistono né prezzo fisso né sconto. In Germania c’è il primo, ma non il secondo. Il nostro Parlamento ha da poco deciso di ritoccare il ribasso massimo consentito, portandolo dal 15 per cento al 5, come in Francia».
La gente vive sui social. Come fa a ritagliarsi lo spazio per leggere libri?
«L’offerta d’intrattenimento e informazione, aumentata durante il lockdown, è una rinnovata sfida per il libro. Vale l’esempio dell’economia: oggidì tutto è prodotto più in fretta, ma un quartetto di Mozart durerà in eterno quanto deve durare e a leggere I Promessi Sposi s’impiega lo stesso tempo che serviva quando uscì la prima edizione nel 1827».
In Italia ci sono 6.799 editori. Non saranno troppi?
«L’unico aiuto diretto l’Aie lo ha chiesto al governo per quelli con una soglia minima del fatturato pari a 2 milioni l’anno e almeno 10 libri pubblicati».
Ma se l’ultimo in classifica ha incassato da inizio 2019 appena 194,90 euro...
«Parlo di microimprese, non di chi ha l’hobby, peraltro favoloso, dell’editoria».
I fuoriclasse del mestiere chi sono?
«Ne cito solo tre, ahimè defunti. Inge Feltrinelli, dal fascino pari alla sua intelligenza. Cesare De Michelis, l’ultimo editore letterato e il miglior erede di Aldo Manuzio. Luigi Spagnol, che portò in Italia la saga di Harry Potter e quattro autori da oltre 1 milione di copie».
Si leggono poco anche i giornali.
«Qui la concorrenza della Rete è stata ancora più devastante. All’inizio gli editori fecero una scelta disastrosa: offrire i contenuti gratis. Il New York Times si è mosso nella direzione opposta e oggi ha 6 milioni di abbonati, di cui solo 840.000 all’edizione cartacea. Il futuro è nel digitale. Ma a una condizione: che il giornale sia talmente speciale da costringere il lettore a non poterne più fare a meno».
Nel 1991 ne fondò uno, «L’Indipendente». Indipendente da chi?
«Dalle pressioni esterne. Era un progetto accurato, ad azionariato diffuso, nella cui costruzione s’impegnarono esperti di assoluto valore, come Pier Gaetano Marchetti, Guido Roberto Vitale e Sergio Erede. Mi chiesero di dirigerlo».
Ma dopo un anno lei fu rimpiazzato.
«L’idea, innovativa, avrebbe richiesto più tempo per affermarsi. La Repubblica giunse al pareggio solo dopo tre anni. Oggi la dirige Maurizio Molinari, uno dei giovani redattori dell’Indipendente».
Vittorio Feltri, suo successore, racconta che Gaetano Afeltra esaminò il giornale: «Com’è bello pulito. Sembra una lapide. Vitto’, tu l’hai a’ spurcà!».
«Afeltra era un mio caro amico e un signore. Ammesso che abbia dato quel consiglio, direi che Feltri lo applicò».
Qual è il vizio peggiore dei giornalisti?
«Sono troppo attenti ai pettegolezzi. Spesso inventano dichiarazioni fra virgolette che non sono state pronunciate».
Il suo maestro in questa professione?
«La scelsi attratto dall’impegno civile di Carlo Casalegno, il vicedirettore della Stampa ucciso dalle Brigate rosse».
Degli anni alla Ue che cosa ricorda?
«L’entusiasmo della notte in cui avemmo la conferma che il nostro Paese sarebbe entrato nell’euro e le lacrime di italiani e sloveni mentre, sotto una pioggia battente, cadeva il Muro di Gorizia».
Come conobbe Romano Prodi?
«Era presidente dell’editrice Il Mulino e io sedevo in consiglio d’amministrazione. Avevo 20 anni. Le nostre mogli erano compagne di scuola alle elementari».
Un portavoce che fa? Riferisce il pensiero del capo oppure lo imbecca?
«A volte consiglia, ma sa che l’autorità ce l’ha uno solo. Come direttore dei consiglieri politici di Prodi, a Bruxelles disponevo delle migliori intelligenze europee, da José Saramago a Umberto Eco».
Di Rocco Casalino, portavoce del presidente del Consiglio, che mi dice?
«Non lo conosco».
Chi o che cosa impedì che Prodi venisse eletto presidente della Repubblica?
«Il concorso di tante volontà e una sostanziale assenza di controllo nelle votazioni. Gli scontenti volevano dare un segnale. Ci fu un serio incidente di percorso. Senza regista e senza mandanti».
Una persona vicina a Beppe Grillo mi assicura che il leader del M5S sogna un’alleanza stabile con il Pd per portare Prodi al Quirinale. Le risulta?
«Mi occupo d’altro. Prodi sostiene che il Colle non è nel suo orizzonte. Quello è un ruolo di garanzia istituzionale, mentre lui è sempre stato uomo di governo».
Non avremo Prodi dopo Mattarella?
«Credo proprio di no».
Se si volge all’indietro, chi rimpiange?
«Paolo Baffi, governatore della Banca d’Italia. Era il simbolo della dedizione al bene pubblico. Con Mario Monti proposi che fosse nominato senatore a vita. Un riconoscimento che gli fu negato».
Che cosa manca al nostro Paese per diventare davvero grande?
«Nulla. Ma servono progetti di lungo periodo per ricostruirlo ed esecutivi che durino. Angela Merkel è cancelliere da 15 anni, Helmut Kohl lo fu per 16, Konrad Adenauer per 14. Se penso che dal dopoguerra noi abbiamo avuto 66 governi e 29 presidenti del Consiglio...».