La Gazzetta dello Sport, 10 agosto 2020
Da Cruijff a Mancini, i predestinati in panchina
Johan Wolfgang Goethe scrisse «I dolori del giovane Werther» quando aveva venticinque anni e nessuna esperienza letteraria: non è l’età né l’apprendistato a determinare se un uomo è un genio assoluto oppure un comune mortale. Più semplicemente, e anche più misteriosamente, si tratta di una questione biologica: c’è chi possiede l’arte nel Dna e chi, invece, non ce l’ha nemmeno dopo aver frequentato mille corsi all’università. Non si sa, perché serve la prova del campo, la verifica inappellabile, se Andrea Pirlo sia un predestinato, però a chi gli rinfaccia di non aver fatto la gavetta può sempre esibire alcuni esempi per nulla banali.
Il primo grande giocatore che è diventato un grande allenatore senza avere il patentino in tasca è stato un certo Johan Cruijff. Nel giugno del 1985 l’Ajax, alla ricerca di una nuova strada per formare i loro campioncini, si affidò all’uomo che, fino al giorno prima, era conosciuto solo come un fuoriclasse con il pallone. Cruijff disegnò un progetto, studiò un metodo che volle applicato da tutti, giocatori, tecnici delle giovanili e dirigenti, vinse e poi andò a incantare Barcellona diventando uno degli allenatori più rivoluzionari della storia.
Il Mancio e...
In Italia fu un mezzo scandalo quando Roberto Mancini si sedette sulla panchina della Fiorentina. Era il marzo del 2001. Il Mancio, che aveva fatto esperienza soltanto come secondo di Eriksson alla Lazio, portò la Viola alla vittoria della Coppa Italia e si aprì così un’autostrada per la carriera.
Ciro Ferrara, già collaboratore di Lippi al Mondiale 2006, non ebbe molta fortuna sulla panchina della Juventus: venne chiamato al posto di Ranieri per chiudere il campionato 2008-09, rimase anche nella stagione successiva, ma fu esonerato in un tribolato inverno. Non era, però, una Juve di campionissimi. Così come aveva ormai il fiatone il Milan quando Berlusconi e Galliani, lasciato partire Ancelotti con destinazione Chelsea, affidarono la panchina a Leonardo. Fu una stagione di transizione.
Il segreto
Il sacro fuoco pareva invece averlo Clarence Seedorf che nel gennaio del 2014 fu chiamato dal Milan a sostituire Allegri. Capitò nel mezzo di una battaglia societaria alla quale non erano estranei Adriano Galliani e Barbara Berlusconi, la figlia del presidente che si era messa in testa di poter fare la dirigente di un club. Seedorf, che non ha tra le sue tante qualità quella della modestia, non riuscì a rapportarsi in modo adeguato con i giocatori. Eliminato dalla Champions dall’Atletico Madrid, il cammino fu deludente anche in A: i rossoneri chiusero all’ottavo posto, rimasero fuori dall’Europa e Seedorf, pur voluto dal presidente Berlusconi, fu dallo stesso Berlusconi congedato con i ringraziamenti di rito. I risultati non migliorarono nemmeno con Pippo Inzaghi e allora si capì che il problema non stava nell’uomo in panchina, ma in quello che avrebbe dovuto firmare gli assegni per acquistare i giocatori. Perché alla fine non va dimenticata una cosa, la più importante: la fortuna degli allenatori, di tutti gli allenatori, neofiti o esperti che siano, con o senza curriculum, la fanno i giocatori che sono i veri motori di questo mondo.