Corriere della Sera, 10 agosto 2020
Passioni e battaglie di Benedetto Croce
Ci vuole fisico per essere Benedetto Croce, starsene sessant’anni fisso in trincea nella battaglia delle idee, fin dall’ironica e godereccia società napoletana dei Nove Musi, creata da ventenne. Per mesi e lustri a duellare con intellettuali e politici su singole questioni, a rintuzzare, a correggere colleghi amabilmente o deplorevolmente, a rompere un’amicizia trentennale con Giovanni Gentile perché la «religione della libertà» era una cosa seria. E non fu scontro solo con il filosofo siciliano, poi fascista, e i suoi epigoni, quanto con l’intero arco costituzionale delle Lettere.
Partite da giocare in nome di un’etica che non manca mai di essere estetica; del resto, chiariva Croce: «Da cosa dovrebbero trarre alimento i miei pensieri se non dai contrasti e dagli obbrobri della vita politica ed economica?». A Guido Calogero, tra i fondatori del Partito d’Azione, diede del «prenditore di cantonate». Coniò l’espressione cretinismo filosofico; ai giovani pensatori che in Italia volevano ficcarlo a forza «in una decorosissima tomba» replicava che avevano il fiato corto.
Trattava ogni accademico borioso «appagato di schemi e astrazioni» quale purus philosophus, purus asinus. Antonio Labriola, suo vecchio maestro, lo voleva socialista e invece si ritrovò sulla scrivania i saggi in cui l’allievo sosteneva che Marx era più morto che vivo. Per non svendersi si fece «voltagabbana al contrario», come noterà Ernesto Galli della Loggia. Accadde in due casi: nel 1925 scaricava il governo mussoliniano votato l’anno prima, portandosi all’opposizione, e nel 1948 scartò, da antifascista liberale, l’antifascismo ideologico del Pci, pronto a cooptarlo. Bollando «calunnioso e perfido» il tenore di un articolo, costrinse l’inflessibile Togliatti a smentire e rettificarlo.
I mille interessi lo conducevano a mille conflitti e in varie vesti: storiografo, critico, moralista, sempre nel cuore dell’attualità. Sul filo di tale logica sarebbe facile immaginare oggi un Croce redivivo vigilare per sé e per gli altri sui marosi del mondo di internet e contro la cancel culture.
Questa agilità di fioretto o di sciabola, da un lato smentisce la leggenda dell’imperturbabilità dell’inquilino di Palazzo Filomarino, dall’altro si lascia ammirare come libera opportunità polemica, spesso d’altissima levatura già solo per l’abito lessicale.
La sua storia è anche la vicenda delle sue contrapposizioni. Vederle ordinate nel doppio sforzo di racconto biografico e di complessivo chiarimento del pensiero è un lavoro che dobbiamo a Giancristiano Desiderio, che al primo volume sulla Vita intellettuale e affettiva di Benedetto Croce avvicina ora il secondo Parerga e Paralipomena (Aras Edizioni); un’eredità di appendici, carteggi succosi e noterelle in genere trascurabili e che invece, come fu per il Mondo di Arthur Schopenhauer, sanno facilitare il discorso al lettore.
L’autore è attento in particolare al Contributo alla critica di me stesso («culmine intellettivo» dirà Gianfranco Contini) e insieme alle memorie delle Pagine sparse che, dapprima riluttante, il filosofo acconsentì al riordino, e certo anche al colossale epistolario (scriveva fino a trenta lettere al giorno), prova della fervida partecipazione ai fatti europei. Desiderio procede per paragrafi brevi e acuti, benché qua e là tinteggiati dall’entusiasmo del devoto, rilevando come don Benedetto intrecciasse le dotte soluzioni filosofiche con la vita reale che gli entrava ogni minuto dalla finestra, dimorando lui a Spaccanapoli, la strada più chiassosa della città.
Il volume cala il suo asso nelle pagine del capitolo «Rosso e Nero»: per la prima volta si appura, fonte alla mano, che il Manifesto degli intellettuali non fascisti redatto da Croce su proposta di Giovanni Amendola uscì non solo sul «Mondo» ma pure sul «Popolo» di don Luigi Sturzo, nello stesso giorno: 1°maggio 1925. Copia rara: il giornale subì in due anni 64 sequestri; una censura tale da renderlo poi introvabile nelle emeroteche.
Il dialogo con Croce si concede una debita sosta, in coda, sul rapporto con Napoli – la patria ideale dell’erudito nato a Pescasseroli, splendida e sgovernata e che fu tentato per un attimo di lasciare per Torino – e ragiona sulla passione per la napoletanità rappresentata dall’arcaico Pulcinella, maschera che si divertiva a disegnare per le figlie inventando storielle sul modello dei cunti dell’amato Giambattista Basile. Dalla trincea, il filosofo che detestava «l’ozio stupido» sortiva per osservare sui decumani gli ultimi guarattellari e il loro teatro popolare portatile.