La Stampa, 10 agosto 2020
Ritratto di Philip Seymour Hoffman
Aveva gli occhi lucidi, sempre, e guardava dritto in fondo alla tua anima, temendo che la sua fosse smarrita. E batteva le palpebre, misurando ogni parola con quella voce roca, profonda, nella quale risuonava un dolore lacerante e un’inestinguibile paura di vivere. Sapeva essere affabile, ironico e, a sorpresa, anche formale, ma improvvisamente si assentava, rapito dai suoi demoni. E negli occhi lucidi appariva la rabbia, perché quel dolore era ingiusto come quel Dio da cui si sentiva abbandonato: aveva pregato molto, da bambino, chiedendosi come fosse possibile che colui che ci ha creato per amore ci condanni poi a soffrire. Del rituale cattolico amava la liturgia, le frasi solenni, il mistero: gli elementi teatrali, insomma, grazie ai quali intuiva che la sostanza ha bisogno della forma, e che proprio quest’ultima può aiutare a decifrare i lineamenti di ciò che è indecifrabile, ma forse ci redime.
Quando decise di diventare un attore rivelò subito un talento straordinario, inimitabile: un dono naturale che gli consentiva di appropriarsi di ogni scena in cui compariva, sia al cinema sia sul palcoscenico. Philip Seymour Hoffman sapeva essere minaccioso e indifeso, ambiguo e limpido, acuto e ottuso, riuscendo ad esaltare le qualità dell’interprete che gli era di fronte, anche quando si trattava di giganti come Robert De Niro o Tom Hanks. «Era unico», ricorda Meryl Streep: lo ha avuto a fianco in Il dubbio, e non riesce a capacitarsi che «la vita di Phil sia finita troppo presto e troppo male».
Ormai potremo vederlo soltanto nei film che ci ha lasciato, ma a teatro era persino più grande, ed è rimasta leggendario il suo Edmund nel Lungo viaggio verso la notte, dove duettava con Vanessa Redgrave, e poi Willy Loman in Morte di un commesso viaggiatore per la regia di Mike Nichols, che lo volle con sé anche nella Guerra di Charlie Wilson.
L’ho incontrato poche volte, sempre al Sant’Ambroeus, il ristorante del West Village dove amava mangiare, a pochi isolati dalla casa in cui è morto per un’overdose: era sovrappeso e si sforzava di mangiare in maniera salutista. È stato David Bar Katz, uno dei suoi amici più intimi, a trovarne il cadavere nel bagno: aveva la testa riversa sul suo stesso vomito, e la siringa ancora infilata nel braccio, dove aveva iniettato una miscela abnorme di cocaina, eroina e anfetamine. Non era mai riuscito a liberarsi di quel vizio, e la polizia trovò nell’appartamento quantitativi enormi di droghe: non li nascondeva neanche, Phil, come fossero la parte dell’arredamento da esibire per rivelare la propria anima.
Era nato a Fairport, nello stato di New York, da una coppia che aveva divorziato quando era ancora bambino. Il padre Gordon, di discendenza tedesca, lavorava alla Xerox, mentre la madre Marilyn era un giudice di pace. È a lei che rimase attaccato tutta la vita, come al fratello, battezzato con lo stesso nome del padre, e alle sorelle Emily e Jill. Smise di frequentare la messa dopo il divorzio dei genitori, e da adolescente pensò di dedicarsi al football, fin quando un grave incidente al collo spezzò bruscamente le sue ambizioni: lo sport però rimase una grande passione e non perse mai una partita del New York Jets.
Fu una rappresentazione di Erano tutti miei figli di Arthur Miller a fargli capire di voler dedicare la propria esistenza alla recitazione, e quando scoprì di avere talento parlò di «miracolo», come fosse ancora il chierichetto affascinato dal pane che si trasforma in corpo e il vino che diventa sangue. I dubbi residui vennero fugati vedendo un’interpretazione mirabolante di un giovanissimo Robert Downing Jr. che lo fece riflettere sul potere della recitazione nei confronti del pubblico: quando lo intervistai mi spiegò che «un attore è un detective alla ricerca di un segreto che spiegherà il carattere».
Dopo aver studiato alla NYU, l’Università di New York, lavorò quasi esclusivamente nel cinema indipendente e nel teatro off off: anche nei ruoli più piccoli emanava una forza magnetica, irresistibile, ma la svolta avvenne quando interpretò un piccolo ruolo in La vita a modo mio (Nobody’s Fool), l’ultimo film del suo idolo Paul Newman, il quale si accorse subito di aver di fronte un fuoriclasse e gli consigliò di non abbandonare mai il palcoscenico.
In quello stesso periodo avvenne l’incontro con Paul Thomas Anderson, del quale divenne intimo amico e con il quale ha formato uno dei sodalizi più travolgenti della storia del cinema. Sono tutti splendidi i film girati insieme, ma forse il più struggente e compiuto è Magnolia: Phil era d’accordo con l’amico regista, che lo definiva la sua confessione, inteso come sacramento, e lui interpretava un infermiere che aveva le sembianze dell’angelo custode. «È uno dei più grandi film mai fatti» mi disse con una passione che sfiorava la rabbia «e sono pronto a combattere all’ultimo sangue con chi non è d’accordo». È stato Anderson a promuoverlo al ruolo di protagonista, dopo più di un decennio di interpretazioni come caratterista, anche per registi del calibro dei fratelli Coen e David Mamet, e in film dal grande successo commerciale come Die Hard, Hunger Games e Mission Impossible.
Ha sempre sostenuto che il «cinema, a differenza del teatro, è un luogo dove l’attore si sente a disagio», ma i risultati continuavano a essere formidabili. Basta guardare Almost Famous, dove immortala il critico musicale Lester Bangs: il modo con cui accompagna la musica con gesti illogici e ossessivi sigilla cosa è l’essenza impalpabile del cinema meglio di ogni possibile spiegazione teorica. È a suo modo un miracolo, che ha compiuto ripetutamente in scene brevi ma indimenticabili nel Grande Lebowski e Il talento di Mr. Ripley, per non parlare di Ubriaco d’amore, dove è un criminale che si nasconde dietro la facciata di commerciante di materassi.
L’Oscar arrivò con un ruolo da protagonista per Capote, per il quale perse venti chili: era stato il compagno della NYU Bennett Miller a chiamarlo, intuendo che avrebbe potuto immortalare il talento e i demoni di un artista diversissimo da lui. Ma nonostante i trionfi, Phil vedeva crescere dentro di lui un’angoscia incontenibile, che lo portò parallelamente ad aumentare l’uso di droghe pesanti: «Non esiste piacere che abbia provato che non mi generi disgusto» diceva agli amici e «la vita è molto divertente quando tu la guardi oggettivamente dall’esterno».
Nel nostro ultimo incontro al Sant Ambroeus mi parlò della sua passione per i libri: «Li acquisto in maniera compulsiva e leggo con la stessa nevrosi. Ho un rapporto di dipendenza, e mitizzo lo scrittore, non mi succede con nessun altro tipo di artista». Tuttavia poi aggiunse: «Mi esalto però di fronte a un film come Goodfellas, dove vedo quello che un grande regista può fare con il cinema».
Un elemento della sua personalità era che era un uomo contraddittorio che non accettava compromessi, come ad esempio in politica dove ha sempre appoggiato candidati radicali quali Ralph Nader. Detestava parlare della vita privata: voleva proteggere i suoi cari dalla follia dello star system, e gli amici più intimi ricordano la dedizione piena di tenerezza per i tre figli e la compagna, la costumista Mimi O’Donnell.
Nonostante fossero tutti a conoscenza della sua dipendenza dalle droghe, la sua morte sconvolse l’ambiente dello spettacolo, e sono innumerevoli gli attori che lo vedono tuttora come un punto di riferimento. Cate Blanchett gli ha dedicato l’Oscar vinto per Blue Jasmine, e ha fatto lo stesso Sam Rockwell dopo la vittoria per Tre manifesti a Ebbing, Missouri. «Il successo non ti rende felice» spiegò una volta Philip Seymour Hoffman «il vero successo è fare quello che ti rende felice e farlo bene». Si trattava di un anelito, però, più che di un traguardo di serenità: se ne accorse più di ogni altro John le Carré, che lo ammirava enormemente: «Phil lavorava fino ad essere esausto, e questo ha contribuito a distruggerlo. Il mondo era troppo luminoso per lui».