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 2020  agosto 10 Lunedì calendario

In morte di Franca Valeri

Natalia Aspesi, la Repubblica
La Franca Valeri più importante è stata la nostra, di noi quasi coetanee che, adolescenti, eravamo da poco uscite dalla guerra, affamate, stordite, foruncolose, mal vestite: spaventate, isolate, ignoranti del mondo. Sotto i bombardamenti i momenti di incanto ce li avevano dati le bellissime giovani della Liala, ricche, con ville dorate sul lago, abiti e scarpe e borsetta "da sogno" si direbbe oggi tra i meno alfabetizzati, in quanto dello stesso colore, e le tavole arredate di argenti cristalli e fiandre, uomini belli e severi, possibilmente eroi di guerra, che le volevano. Era il lusso fiabesco, bugiardo, della Cenerentola autarchica. Ma fu la Signorina Snob alla radio, poi in libro, poi in televisione, accanto a Cesira la Manicure e alla Signora Cecioni, a mostrarci quale destino potevamo aspettarci, o evitare, nel furore degli anni ’50 e ’60. E quindi a insegnarci a riderne, e soprattutto a ridere di noi.
Non era la superiorità degli uomini a giudicarci e a irriderci, ma la grazia di un’amica, di una sorella: siamo bruttine, sprovvedute, illuse, non abbiamo il fidanzato, dobbiamo tenercela stretta se no guai, ci sono i democristiani e pure i comunisti che ci sorvegliano; comunque con la Valeri si viveva in un mondo femminile tutto nostro, senza ingombri maschili che non avevano parola e scivolavano via, pur costantemente sognati; a ripensarci quello è stato un tentativo di protofemminismo adeguato ai tempi di sudditanza, che insegnando a prenderci in giro, ci dava conforto e coscienza di noi.
Erano anni in cui le ragazze belle erano poche, però bellissime, come Sophia Loren e come oggi non ce ne sono più nell’uniformità dell’immagine imposta dalla paura della diversità. Franca Valeri rientrava nella categoria delle bruttine evitate dal cinema se non in ruoli comici, dovendo l’aspetto stesso indurre al riso. Franca era piccola (nel film Il segno di Venere di Dino Risi, 1955, è la metà della Loren), ma aveva occhi belli ed era carina: però per il cinema e per i suoi personaggi di sfigate o di imbroglione e altro, con i suoi modi alteri o difensivi, quella parlantina inarrestabile, quel musino severo o quella bocca spalancata in un riso esagerato, sapeva essere più che brutta, ridicola, in quel modo commovente che ti esclude dalla vita ma non dai desideri. L’aggettivo per quel tipo di donna era "racchia". Noi ragazze milanesi andavamo davanti alla pasticceria Sant Ambroeus per vedere le vere signorine snob, naturalmente belle eleganti e con cane, che c’erano davvero, non erano una invenzione della Valeri, solo che quelle vere erano antipatiche.
Ma bastava il suo tocco perché nei meravigliosi film in bianco nero di quegli anni, (con i nostri meravigliosi attori, Sordi Mastroianni De Sica, De Filippo e anche Loren, e i nostri registi non autorevoli ma ce ne fossero ancora così il nostro cinema trionferebbe) le sue donne fossero indimenticabili nella loro decorativa banalità: chi si dimentica la dispotica Elvira Almiraghi vestita da cavallerizza che umilia il marito cretinetti, Alberto Sordi ne Il vedovo? Oppure la prostituta senza clienti in fuga dalla polizia in Villa Borghese? E Lady Eva che si spaccia per una contessa polacca e di nome fa invece Filumena Cangiullo, con caschetto ossigenato, sigaretta col bocchino nel film «dedicato alle anime semplici, alle cassiere solitarie, alle zitelle di 50 anni ancora convinte di trovare l’anima gemella » del film Piccola posta?
Adesso che anch’io faticosamente mi trascino da decenni come una muffa Lady Eva, sono contenta di poter dire che la parola "zitella" non esiste più. Indicava con spregio le femmine che spesso la Valeri interpretava, disgraziate derise in quanto sole e senza l’indispensabile marito.
Oggi le single che mi scrivono si dicono finalmente contente, liberate dai fastidi del maschio. Però mi spiace e la Franca lo sapeva e negli ultimi anni scuoteva la testa preoccupata, qualche passo indietro noi donne, signorine snob o altro, l’abbiamo fatto. Abbiamo ottenuto è vero conquiste epocali però sempre in pericolo, ma non siamo contente. Siamo in paranoia se uno ci dice culona, abbiamo perso la libertà di prenderci in giro e prendere in giro gli altri; noi coetanee della Valeri guardiamo con pena le ragazze private non tanto della manata sul sedere quanto del flirt aziendale che tanto alleviava la noia del lavoro. Siamo sempre all’erta, musone, diffidiamo degli uomini ma temiamo le donne. Non ci sono più bruttine sfigate eppure tante sono molto sole. E cosa terribile, non sappiamo più ridere.



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Masolino D’Amico, La Stampa
Che cosa si può scrivere su Franca Valeri? Tanto per cominciare, è difficile parlare di lei come di qualcuno che «è stato». A cento anni sembrerebbe legittimo essere sopravvissuti a se stessi, ma questo caso è diverso. Nessuno ha mai considerato Franca Valeri come una pensionata che ha esaurito gli argomenti e quindi se ne sta serenamente in disparte. Oddio, non sgomitava certo – non lo aveva mai fatto nemmeno quando era al massimo dell’auge – ma chi la cercava non tornava a casa a mani vuote. Anche negli ultimissimi tempi, quando il Parkinson le rendeva difficile farsi capire, soprattutto al telefono, le frasi che pronunciava con fatica erano sempre, nella loro essenzialità, fulminanti; basterebbe recuperare il discorsetto che fece non più di due estati fa alla Casa del Cinema di Roma, in occasione di una serata a lei dedicata.
Così, anche se le sue manifestazioni erano diventate rare, non c’è bisogno di descriverla troppo a coloro che tanto giovani non sono. Regine della moderna comicità femminile – Marchesini, Guzzanti, Littizzetto, Cortellesi... – le hanno dato atto della strada da lei loro aperta ormai tantissimi anni fa. E a qualcuno avranno fatto effetto le dimensioni dell’accoglienza che le riservò un Festival di Sanremo ancora nel 2014.
Agli imberbi, a coloro che non l’hanno vista proprio mai, suggerirei di cominciare con due film in bianco e nero degli Anni 50, entrambi diretti dal suo concittadino Dino Risi, in cui la Franca interpreta due personaggi diametralmente opposti, una perdente e una vincente. La vincente è la prepotente imprenditrice milanese che infierisce sull’infingardo marito romano, un Alberto Sordi al suo più caratteristico (Il vedovo, 1959: capolavoro della commedia all’italiana). La perdente è la sorella bruttina di Sophia Loren ne Il segno di Venere (1955). Si tratta di una zitella che vive di illusioni, e si ride di lei, ma il sottofondo è amaro. Donnine così, decise a ignorare una società che calpesta i loro sogni, sono descritte in chiave drammatica da un Tennessee Williams.
Ma anche nell’arte di Franca Valeri c’è una nota di disperazione, sempre camuffata sotto l’ironia. Fu come attrice tragica, dopotutto, che si era proposta quando tentò di entrare, invano, all’Accademia di arte drammatica. Come ognun sa, quella delusione, unita a qualche prima esperienza sul palco, la stimolò a trovare la sua vocazione nell’umorismo, fondando coi complici Vittorio Caprioli e Alberto Bonucci (poi sostituito da Luciano Salce) e col regista Luciano Mondolfo i cosiddetti Gobbi, specializzati in sketch da camera, senza scene e senza costumi, da recitarsi in piccoli teatri. Erano irresistibilmente spiritosi e furono subito esportati e ammirati a Parigi dove si stavano imponendo, anch’essi in locali da pochi posti, i rivoluzionatori della scena Beckett e Ionesco. Naturalmente nell’adottare il tono faceto i nostri si adeguavano allo stato d’animo prevalente nella miglior parte dello spettacolo italiano affrancato dalla retorica del ventennio.
Lo stesso neorealismo cinematografico durò solo a costo di trasformarsi nella surricordata commedia all’italiana, dove si scherza su situazioni molto serie. Anche la Franca, come tutta la nazione, era uscita da un periodo tutt’altro che lieto. La sua famiglia, di origini e tradizioni ebraiche, era stata duramente colpita dalle leggi razziali; molti componenti si erano rifugiati all’estero, lei stessa aveva dovuto girare con documenti falsi. In seguito dichiarò di non aver provato nessuna pietà per il Duce quando lo vide morto a Piazzale Loreto.Nel suo adottare la comicità non vi fu mai peraltro un abbandono alla buffoneria. I suoi impagabili ritratti di femmine ridicole – la signorina snob che tanto piacque alla radio, la pigra signora Cecioni sempre al telefono con mammà – non erano satira, ma realtà osservata e riprodotta col sorriso, con un’indulgenza che veniva dal profondo. Tout comprendere c’est tout pardonner. La Franca osservava le sue creature, e le capiva; faceva ridere di loro, ma un po’ come si ride di noi stessi. Non condannava.
Del resto, la dimostrazione della sua serietà di fondo è nell’amore sviscerato che coltivò per l’opera lirica, cui per un decennio dedicò la miglior parte delle sue energie, proteggendo e allevando cantanti e anche dirigendo allestimenti. E l’opera lirica come si sa è l’opposto dell’ironia. Qui non ci sono sfumature, ma passioni – odio, amore, gelosia, vendetta. È il regno dell’assoluto, è il mondo ideale senza compromessi.
A questo punto bisognerebbe tracciare un bilancio dell’attività della nostra, ma ci vorrebbe un’enciclopedia. Dell’attrice, nella sua gamma ristretta grandissima, si è detto qualcosa. Cominciò in teatro con piccole invenzioni, incoraggiando il cinema a utilizzarla prima in parti di contorno, sopra le righe (la coreografa ungherese di Luci del varietà di Fellini e Lattuada), quindi in personaggi di spessore, specie quando dimostrò di poter tener testa perfino al mostro Alberto Sordi. Ancora al cinema, prima di essere costretta dall’età a caratterizzazioni marginali, fu coautrice e interprete di tre notevoli, originali pellicole di suo marito Caprioli. Il teatro lo frequentò per tutta la vita, e non solo in testi scritti da lei stessa, tra cui commedie musicali al tempo del sodalizio con Caprioli. Dopo la radio, la tv le diede la popolarità, senza minimamente chiederle di snaturare il suo appello all’intelligenza degli spettatori – specie nei varietà con regie di Antonello Falqui, quasi ininterrottamente dal 1956 all’84; nel 1993 vi fu un ritorno, in Magazine 3. Per i suoi libri, dove si ammirano la sua precisione ed economia, non rimane più spazio. Leggeteli tutti, magari cominciando con la sintetica autobiografia Bugiarda no, reticente (2010). 


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Paolo Mereghetti, Corriere della Sera
In un aureo librettino (Cosa fai in giro?) Cesare Cases ricorda la vivace figlia di un amico d’infanzia del padre, Franca Norsa, che come lui seguiva le lezioni di religione ed ebraismo di una certa signorina Rocca. «Non era una scolara modello – scrive Cases - e mi ricordo che una volta la signorina disse che io le bagnavo il naso, al che lei eseguì fulmineamente, introducendomi un dito in bocca e portandoselo al naso: forse una delle prime gag di colei che più tardi doveva diventare celebre col nome di Franca Valeri». Cases rimpiange di averla frequentata solo durante le visite di famiglia, perché avrebbe potuto «giovare a rendermi meno triste» ma quella notazione illumina già benissimo lo spirito unico della futura attrice: la capacità di usare l’ironia anche contro se stessa, pronta a prendersi in giro per far scattare il sorriso o la risata. Nella sua carriera ha interpretato più di cinquanta film, firmando la sceneggiatura solo di quattro, ma avrebbe potuto pretendere che il suo contributo fosse riconosciuto per tutti i suoi personaggi. Perché c’è qualcosa nelle sue donne spigolose, spesso infelici, a volte ordinarie ma sempre caricate a molla, che le rende inconfondibili. Persino l’Elvira Almiraghi del Vedovo, sempre pronta a rintuzzare le uscite di un marito vanesio, sa che un po’ di quei comportamenti sono colpa sua, che ne porta addosso una parte di responsabilità che non può cancellare. Era come se si portasse addosso – lei che si è sempre schermita dall’essere definita femminista - il peso di essere donna, la coscienza della sua superiorità e la condanna (sociale, culturale) all’inferiorità. Non ne ha mai fatto un dramma (o un melodramma) ma si è sempre sentita in dovere di prendersi in giro, di mettere da sola in mostra i propri limiti e difetti. Trasformando tutti i suoi personaggi nel variopinto mosaico di una donna che ironizza per prima cosa su se stessa.