La Stampa, 9 agosto 2020
Intervista ad Amos Gitai
Amos Gitai è un regista israeliano con una formazione da architetto. Nato nel 1950, è noto al pubblico soprattutto per il suo film Kippur, presentato a Cannes nel 2000. Basa il suo lavoro in gran parte sull’esperienza personale, tra cui la guerra dello Yom Kippur e altri eventi storici in Israele.
Come e dove ha trascorso il periodo di confinamento?
«Nel Sud della Francia. È stato un buon momento per scrivere. Nonostante l’ansia generale causata dal Coronavirus, sono riuscito a lavorare a due libri: dovevo intanto completare il lavoro che ho fatto per il College de France, concentrandomi sul cinema, sull’archivio e sulla memoria. Il secondo libro è associato ai miei molteplici progetti e al mio archivio sull’assassinio del primo ministro israeliano Yitzhak Rabin 25 anni fa nel novembre 1995. Sarà pubblicato il prossimo anno da Gallimard a Parigi e da La nave di Teseo a Milano in occasione di una grande mostra alla Bibliothèque Nationale de France».
Quali problemi affronta in questi libri?
«In entrambi si affronta il problema dell’artista, del regista e dello scrittore, ovvero sapere cosa fare quando si vive vicino a un vulcano. Quale forma artistica si offre? Qual è il giusto grado di distanza? Dato che siamo nel mezzo di una situazione drammatica, dovremmo introdurre una prospettiva, e non è facile. Qualche anno fa, ho intrapreso il progetto sull’assassinio di Rabin come una sorta di memoriale, con la speranza di mettere in moto le cose. Ma l’arte non è il modo più efficace per cambiare la realtà. La politica o le mitragliatrici hanno un impatto molto più diretto. Tuttavia, a volte l’arte può avere un effetto a combustione lenta, preservando un ricordo che chi detiene il potere vorrebbe cancellare, poiché richiede obbedienza e non vuole essere sfidato. Se gli artisti restano fedeli alla loro verità interiore, producono opere che possono viaggiare nel tempo, anche se non hanno un impatto immediato. Spero sia così con questa presentazione dalle mille sfaccettature - un film, mostre e un’opera teatrale - oltre a usare le circostanze che ci vengono imposte dal confino per scrivere libri».
Cos’altro ha fatto in tutti quei mesi?
«Ho deciso, con il produttore britannico Jeremy Thomas, di assemblare 25 film che ho realizzato in 40 anni e di renderli disponibili attraverso la sua compagnia HanWay. Mi ha richiesto molta energia, per contattare i diversi produttori e laboratori in tutto il mondo e per individuare le pellicole e ridigitalizzarle».
Ha preparato un nuovo film?
«Abbiamo completato il lavoro su Laila ad Haifa e ci hanno appena detto che il film è stato selezionato per il concorso ufficiale al Festival del cinema di Venezia a settembre».
Di cosa parla?
«Lasci che glielo descriva. È una serata pesante e umida nella città portuale di Haifa. Stiamo entrando in un bar, per vedere una mostra di foto di un fotografo israeliano militante. Gil incontra il direttore della galleria Laila. Viene trascinato in un labirinto di relazioni umane. Questo club Fattoush è un rifugio per gente di tutte le origini: uomini e donne, etero e gay, ebrei e arabi, radicali e moderati. Impariamo che possiamo essere diversi, ma non abbiamo bisogno di uccidere o distruggere l’altro. Ogni società ha bisogno dell’Altro. Questa è una caratteristica della modernità, che va oltre il Medio Oriente. E dopo tutto noi, l’artista, il regista, il vagabondo in questi luoghi, possiamo semplicemente lanciare un altro mattone nel muro».
Ma i suoi sentimenti personali durante questa pausa forzata?
«Vedremo se questa epidemia può anche creare cambiamenti nel modo di usare il nostro tempo e nel relazionarci con il pianeta e l’ecologia. Vedremo quale sarà l’impatto di questo virus sulla tirannia e sui despoti. Mi ricorda un momento durante la guerra dello Yom Kippur nel 1973 efacevo parte di un’unità di soccorso. Per noi, il nemico era la morte: dovevamo salvare le persone. Quando abbiamo sorvolato il territorio siriano siamo stati colpiti da un missile e il nostro elicottero si è schiantato. Da soccorritori siamo diventati vittime. Ho iniziato a girare con una piccola fotocamera Super 8 durante la guerra, ma mi ci sono voluti 27 anni per girare un film basato su questa esperienza. E un trauma personale ha assunto proporzioni simboliche. Israele è un Paese strano; ogni volta che pensi di aver elaborato il rapporto che ti ci lega ti accorgi che la realtà è cambiata e che è in uno stato permanente di trasformazione. So di essere solo un individuo dentro a questo meccanismo, forse un testimone nel senso hitchcockiano del termine. Allo stesso tempo, Israele è molto attraente; ha qualcosa di molto reale e immediato, senza fronzoli. Tutto ciò merita molta attenzione. Ho riguardato le foto fatte durante la guerra e specialmente dopo che il mio elicottero è stato abbattuto, e ho iniziato a fotografare e a filmare la stanchezza della vita militare che sentivo nello schianto, come frammento e traccia del ricordo di un’esperienza traumatica. Mentre osservavo queste foto esposte nella galleria, mi è venuta in mente una strana giustapposizione di ricordi. Un po ’come quello che stiamo vivendo in questo momento».
Israele è particolarmente ferito dal coronavirus. Come mai, se è un Paese così avanzato ed efficiente?
«Secondo me la lunghissima durata del governo Netanyahu, ormai quasi un quarto di secolo, sta provocando questo cocktail molto problematico di pericolo per la salute e rischio politico».
Il fatto che la maggior parte delle sale cinematografiche fossero chiuse ha obbligato le persone a guardare le serie Netflix. Pensa che il ruolo del cinema d’autore cambierà?
«Vorrei condividere con lei un vecchio proverbio ebraico. Lo dirò prima in ebraico e poi lo tradurrò: "HAKOL TSAFUY VEHARESHUTNETUNA" che significa "Tutto può succedere ma hai il diritto di agire". Possiamo continuare a produrre, creare e forse questo potrebbe avere qualche effetto sulla percezione della realtà. È una domanda aperta, come nella dialettica talmudica: quando fai una domanda ti risponderò con un’altra domanda, in questo modo potremo continuare il nostro dialogo».
(Traduzione di Carla Reschia)