Il Sole 24 Ore, 9 agosto 2020
Quanto vale una vita umana?
La pandemia di Covid-19 conferma una tendenza storica importante: la valorizzazione senza precedenti delle vite umane. Una tendenza individuata dallo studioso di etica politica Ariel Colonomos, direttore di ricerca al Cnrs/Ceri (Centre de recherches internationales), madre italiana, nel suo Un prix à la vie, scritto, per sua e nostra fortuna, prima che la crisi innescata dalla pandemia avesse fatto perdere ad alcuni il senso critico e li avesse resi passivi e felici esecutori di ordini.
Lo studio di Colonomos acquista ora valore quasi predittivo per aver individuato la tendenza della nostra epoca nella ricerca di sicurezza guidata da umanesimo e filantropismo talvolta sinceri, talaltra malati di paternalismo. Ma atteniamoci ai contenuti della ricerca e lasciamo a chi vorrà farlo l’applicare all’attualità le analisi qui contenute.
Quanto vale una vita umana? Due cammelli, sette asini, un cavallo, 20mila dollari (il prezzo pagato dall’esercito americano in Afghanistan per la morte di una bambina) o 50mila dollari (idem, per la morte di un uomo)? La questione di dare un prezzo alla vita umana sembra indegna – una vita è una vita è una vita e tutte valgono ugualmente, anzi il loro valore è inestimabile, tuonerà qualche moralista indignato – eppure la si ritrova continuamente in caso di guerre, di ostaggi, di scudi umani o, appunto, di epidemie.
In un momento in cui il capitalismo tende ad acquistare ogni cosa, dal posto in coda a teatro agli organi umani, come ben aveva spiegato Michael Sandel nel suo illuminante Ciò che i soldi non possono comprare (Feltrinelli 2012), si va alla ricerca di una formula per trovare un equivalente materiale alla vita umana (in maniera non molto diversa da quando la si poteva risarcire con un’altra bestia da soma). Lo stesso autore, tutt’altro che cinico, rifiuta il postulato normativo secondo il quale le vite non possono essere differenziate e valorizzate materialmente; è tuttavia ben consapevole del fatto che l’equivalenza tra vita e materialità deve essere fatta oggetto di un’attenzione molto particolare e trovare una giusta misura.
Data dunque come premessa che l’equivalenza materiale delle vite umane esiste ed è praticata, è importante interrogarsi sulla qualità e la validità delle misure messe in gioco per compierla. Questa è quel che l’autore, con la sua scrittura limpida con cui espone idee pregevoli, definisce la dimensione descrittiva. Da questa procede alla dimensione normativa, individuando due modelli di potere, patriarcale e filantropico, e sottolineando come nel mondo liberale contemporaneo sia il secondo a prevalere, senza peraltro aver scalzato completamente il primo, che continua a far capolino eccome. Conclude il libro una interessante disamina sulle vite future (già Hans Jonas aveva affrontato il problema dei danni ecologici che stiamo infliggendo alle persone non ancora nate e ai loro diritti), nonché sulle vite delle persone geograficamente e culturalmente lontane ma la cui sofferenza si avvicina a noi sempre di più, i migranti.
Un modo molto acuto e arguto per far comprendere il prezzo della vita nelle nostre società dominate dallo Stato è quello di paragonarle ai criteri che vigevano in società precedenti alla sua nascita, cosa che l’autore fa usando alcune situazioni esposte da Shakespeare nel Mercante di Venezia e in Enrico V; qui il prezzo della vita è il nucleo centrale della storia e permette di constatare come la differenza tra il valore dei beni presenti e di quelli futuri (il banalissimo problema dell’uovo e della gallina) sia una preoccupazione del nostro come di quel mondo.
Oggi sappiamo almeno con chiarezza, dopo l’enunciazione dell’utilitarismo da parte di Bentham e la sua ripresa weberiana nell’etica della responsabilità, che i governanti sono responsabili delle conseguenze delle loro azioni, che la scelta privilegi la gallina o l’uovo. E che non basta ripetere a propria difesa la dottrina del duplice effetto elaborato da Tommaso d’Aquino e che Colonomos riassume nella formuletta: prévoir n’est pas vouloir: di fatto alcune conseguenze previste ma non volute possono essere più gravi e dannose delle azioni previste e volute (v. Hiroshima).
Il libro è corposo e ricco di concetti, argomenti, motivi, esempi, casi e problemi e domande: sono giustificabili le decisioni prese dagli adulti sulle vite dei bambini, e sulle quali questi ultimi non possono intervenire, in ragione della giovane età? Il valore della vita dei bambini è superiore a quella degli adulti, dal momento che la loro speranza di vita è superiore e danneggiarli vuol dire non poter approfittare dei loro talenti e ostacolare il futuro di una nazione? E come la mettiamo con la «tirannia della sicurezza», che finisce per limitare i diritti di tutti e solleva, nota giustamente Colonomos, il problema della proporzionalità dei fini?
Il progetto della sicurezza umana sottolinea l’importanza di valutare le condizioni ambientali, economiche e sanitarie di una collettività conducendo a una riflessione sulle differenze di attribuzione di valore a lungo e a breve termine. Essa va a braccetto con la nuova concezione della filantropia che mette in causa il controllo sulle vite e i corpi delle persone attraverso istituzioni come la prigione, l’istituzione sanitaria e persino assicurativa: già Foucault, che le tendenze le individuava come pochi, ce ne metteva in guardia.