Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2020  agosto 09 Domenica calendario

La civiltà umana scandita dai pasti

È indubbio che tra le primarie attività dell’uo–mo il nutrirsi rappresenti da sempre quella destinata a coinvolgere pressoché tutti gli aspetti della vita individuale e collettiva, tanto da determinare gerarchie sociali e geopolitiche, modelli di convivenza, scelte produttive, indirizzi economici, sviluppi tecnologici. Lo documenta in maniera puntuale questo volume di Jacques Attali con uno sguardo globale, sia affondato nelle più antiche lontananze temporali che allargato a tutti i luoghi del pianeta e alle loro diverse popolazioni.
Siamo, così, guidati lungo un millenario cammino di progressiva espansione della presenza dei primi ominidi, là nei luoghi dell’Africa e dell’Asia dove si palesarono e lasciarono tracce di sé, via via sempre più in grado di camminare eretti, di aggregarsi in piccole comunità capaci di padroneggiare il fuoco, di forgiare strumenti atti alla caccia, di iniziare forme stabili di coltivazioni diversificate per aree geografiche ( come grano e leguminose in Europa e riso in Cina, India e Sud- Est asiatico), abbandonando il nomadismo indispensabile ad un’alimentazione di raccolta di quanto trovato in natura, per una sedentarietà fatta di accorta coltivazione delle messi, di allevamento del bestiame, di vita comunitaria organizzata secondo forme di gestione del potere, sì da garantire il controllo delle risorse disponibili e una loro ordinata distribuzione.
Tutto questo, dunque, sempre con l’obiettivo di assicurarsi il cibo indispensabile, attraverso un processo di crescita dove all’individuo si sostituiva una comunità con regole richiedenti fitte e continue relazioni sociali e quindi modalità di scambi interpersonali affidate a linguaggi di dialogo e di interlocuzione. L’autore ne è certo: «Cibo, linguaggio e scrittura evolvono all’unisono (…)fin dalla sua nascita il linguaggio è inseparabile dal mangiare. Il cibo è argomento di conversazione e al tempo stesso il pasto è un’opportunità per dialogare».
Mangiare in comune in banchetti offerti alle divinità, successivamente allargati a celebrazioni festevoli e celebrative, diventa una vera e propria occasione di relazioni sociali, utile ad aggregare consenso attorno ai regnanti, dando in tal modo testimonianza di un utilizzo del cibo quale pretesto per finalità di carattere politico e comunque pubblico, peraltro testimoniato dalla dimensione sempre più sontuosa e sovrabbondante di piatti e leccornie offerte ai commensali, partecipi di una sorta di rito, che iniziava a richiedere veri e propri “artisti” della cucina insieme ai primi ricettari.
Le civiltà presenti nei diversi continenti svilupparono specificità alimentari in relazione ai frutti dei loro territori, come pure modalità di fruizione dei piatti in base alle differenti abitudini di vita e ai particolari rituali religiosi. Così, ad esempio, il buddismo orientò il Giappone verso una dieta vegetariana, mentre in India si diffusero le pratiche ayurvediche improntate alla «moderazione» anche a tavola con il ricorso a pietanze «piacevoli» e «morbide», sconsigliando alimenti come aglio, olio, alcol, spezie, senape, pesce e carne, causa di dannosi aumenti della temperatura corporea.
Patate e mais costituirono la base dell’alimentazione degli imperi mesoamericani, lasciando invece agli Egiziani il privilegio di una dieta molto diversificata di tutti i tipi di carni condite con olio pregiato di Siria e Cipro e insaporite dallo zafferano. Naturalmente escludendo da questi cibi la parte povera della popolazione, ovunque costretta a sfamarsi con verdure e polente di cereali bolliti. L’ebraismo, a sua volta, esaltava il rapporto tra parola e alimentazione, in quanto «non si mangia solo per mangiare, ma per avere l’opportunità di studiare insieme la parola».
Greci, Etruschi e Romani perfezionarono le coltivazioni cerealicole e l’allevamento (maiali e pecore, soprattutto), approfondendo pure il rapporto tra alimentazione e salute, incrementando ulteriormente la funzione del banchetto in chiave di rapporti di potere e di dimostrazione dei ruoli sociali.
Il cristianesimo e l’Islam attenuarono gli aspetti sacrificali e videro nel cibo una benedizione di Dio, consigliando comunque moderazione, digiuni purificatori e scelte alimentari suggerite da prescrizioni divine. Progressivamente queste diverse abitudini alimentari tesero in gran parte a contaminarsi, finendo per confluire nella ricchezza della cucina italiana rinascimentale e nel successivo predominio di quella francese. Ormai si riconosceva ufficialmente l’esistenza di un’arte gastronomica sancita da innumerevoli trattati, che esaltavano i piaceri della tavola “europea”, di là da ogni limitazione di derivazione religiosa, arricchiti da raffinatezze estetiche e da utilizzo di prodotti sempre più rari come le lingue di fenicotteri rosa.
Tra ricchi e poveri il solco alimentare si ampliava sempre più, con gli interminabili pranzi dei primi fatti di decine di portate (anche fino a duecento tra antipasti, intermezzi, arrosti di ogni tipo, insalate e dolci) e i secondi ancora costretti sovente alle erbe dei campi, a rarissima carne e a zuppe bollite.
La scoperta dell’America non fece che contribuire a nuovi arricchimenti culinari, che si ampliarono a tutti i ceti sociali con l’arrivo di patate, fagioli, pomodori, tacchini, peperoncino, canna da zucchero, fiore di vaniglia, cioccolato. E in contemporanea ecco giungere il caffè dall’Etiopia e il tè dalla Cina.
Ma il mutarsi dei tempi portò all’emergere di una cucina “borghese” all’insegna della semplicità e dell’utilizzo dei prodotti del territorio, in contemporanea al diffondersi di taverne e ristoranti, che certificarono maggiori possibilità di dialogo e di confronto democratico tra le persone. Peraltro la pratica del banchetto “politico”, sia pure con maggiore frugalità, non venne meno con le trasformazioni democratico-parlamentari, e anzi si consolidò come metodo comune di trasmissione dei programmi dei diversi candidati alle elezioni parlamentari.
Nell’esplosione capitalistica e tecnologica dei due ultimi secoli, l’autore vede una dannosa involuzione dovuta a pasti sempre più frettolosi, fatti di alimenti industriali di scarsa qualità e a prezzi contenuti per incrementare gli acquisti consumistici di altri beni immessi sul mercato dai grandi imprenditori internazionali. La sua è una condanna senza mezzi termini di tutto quanto sta accadendo: fertilizzanti chimici, Ogm, uso eccessivo di zucchero, fast food, imposizione di diete, cibo standard confezionato dalla grande industria, scomparsa dei pasti in famiglia, mense scolastiche e sui luoghi di lavoro, sovrapproduzioni di prodotti e loro spreco ed altro ancora. Poco curandosi della fondamentale considerazione (e contraddizione) che proprio in una simile realtà la popolazione mondiale si è accresciuta in maniera vertiginosa e la durata della vita dei singoli ha raggiunto livelli insperati ancora pochi decenni or sono. Proponendosi, così, in alternativa, di individuare ricette utili a scongiurare un simile degrado (dal quale ai suoi occhi sembra salvarsi solo l’Italia!), affidato a un rapporto più consapevole con la natura che faccia tornare l’umanità a nuovi armoniosi dialoghi attorno a una rinnovata condivisione dei cibi.
Una speranza che si nutre, peraltro, del grande tema, divenuto a parole pensiero comune, della salvaguardia del pianeta e che forse finisce per confliggere con la storia raccontata nel volume di un cibo che si modellava di volta in volta sulle esigenze materiali, culturali, tecnologiche dei singoli popoli, non ubbidendo a regole precostituite pur se dettate dalle migliori intenzioni di costruzione del futuro.