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 2020  agosto 09 Domenica calendario

Il record dei bond emessi dalle grandi aziende

Non piovono dal cielo. Non arrivano dall’albero degli zecchini, come sperava Pinocchio. Nè da quello di Natale. Ma poco ci manca: lunedì scorso Alphabet (il gruppo di Google) ha emesso sei diverse obbligazioni per l’importo complessivo di 10 miliardi di dollari e scadenze da 5 a 40 anni, offrendo agli investitori i tassi d’interesse più bassi mai pagati da un’azienda americana in dollari. Sulla scadenza decennale, per esempio, la cedola è dell’1,1%. Ma l’aspetto su cui soffermarsi è un altro: Alphabet, che ha già bilanci che trasudano cash da tutti i pori, non aveva affatto bisogno di raccogliere denaro fresco. Ha emesso questi bond (cosa che non faceva dal 2016) solo perché, con tassi ai minimi e liquidità ai massimi, questa era un’occasione da non perdere.
Ha insomma visto sul mercato obbligazionario la trasposizione finanziaria dell’albero degli zecchini. E ne ha approfittato. Come hanno fatto tante aziende negli ultimi mesi. Ma non tutte: questo è infatti un mercato per grandi imprese, soprattutto per quelle che provengono da Paesi con spread bassi e volatilità obbligazionaria contenuta. Le aziende italiane, infatti, ne hanno approfittato poco. Morale: anche lo stato di grazia del mercato dei corporate bond, cosa di per sé molto positiva per superare questo periodo di emergenza Covid, contribuisce a polarizzare il mondo aziendale tra ricchi e poveri. Tra imprese piene di liquidità (che possono permettersi di affrontare al meglio anche un’eventuale seconda ondata di pandemia) e altre che invece soffrono di più. Soprattutto le Pmi.
L’albero degli zecchini
Alphabet è infatti solo la punta di un iceberg. Il boom di emissioni di bond aziendali dopo lo shock di marzo dimostra che tante aziende hanno approfittato della situazione per raccogliere fondi (attraverso bond o prestiti, o rinunciando a investimenti, o facendo dismissioni) e ripararsi da eventuali nuove bufere finanziarie. Secondo i dati elaborati da Dealogic per Il Sole 24 Ore, da gennaio ad oggi le aziende statunitensi hanno emesso obbligazioni per un ammontare (poco più di mille miliardi di dollari) praticamente doppio rispetto al precedente record storico del 2015 (634 miliardi sempre da gennaio a inizio agosto). Stesso film, seppur con numeri meno clamorosi, in Europa: le emissioni obbligazionarie da parte delle aziende non finanziarie sono ammontate a 469 miliardi di dollari, massimo storico nel periodo gennaio-agosto.
Ma quel che più conta è che si tratta di una raccolta-fondi prudenziale: le aziende hanno emesso così tanti bond soprattutto per mettere da parte il più possibile fieno in cascina per onorare i debiti che scadranno in futuro. Secondo sempre i dati elaborati da Dealogic per Il Sole 24 Ore, con le emissioni record di bond, quest’anno le aziende americane hanno già raccolto una quantità di cash pari ai bond che scadranno da qui alla fine del 2022. Quelle europee hanno già raccolto liquidità pari ai bond che scadranno da oggi alla metà del 2022. Mai in passato le imprese si erano portate così avanti. E se si sommano i prestiti bancari (anche questi sono cresciuti), i dividendi mancati e le varie operazioni per accumulare cash, il fieno in cascina è probabilmente ancora di più.
«Le grandi aziende hanno raccolto fondi per creare un cuscinetto di liquidità prudenziale in vista di un futuro macroeconomico incerto – spiega Flavio Fabbrizi, capo del Debt Capital Markets di HSBC per l’Italia e la Svizzera -. Di fatto hanno accumulato con largo anticipo cash per rifinanziare i futuri debiti in scadenza in modo da evitare situazioni di stress anche nello scenario peggiore. Ormai la liquidità per le aziende è qualcosa di strategico: molte imprese sono dunque state pragmatiche e hanno sfruttato il buon momento sui mercati».
Chi ha il pane, chi i denti
Purtroppo il mercato obbligazionario non è accessibile a tutte. Se da un lato ci sono i colossi come Alphabet che possono permettersi di raccogliere 10 miliardi a tassi bassi anche se non ne hanno bisogno, dall’altro ci sono miliardi di piccole e medie imprese che – in questo periodo di Covid e di post-Covid – avrebbero bisogno di denaro e fanno fatica ad averlo. A fine aprile la Banca dei Regolamenti Internazionali aveva pubblicato uno studio allarmante: diceva che – guardando i bilanci di fine 2019 – il 50% delle imprese del mondo non aveva cash a sufficienza per rimborsare i debiti in scadenza nell’anno. Con le linee di credito già accordate i soldi sufficienti c’erano, ma – continuava la Bri – «l’accesso al finanziamento bancario è disomogeneo e non uguale per tutti, e le banche potrebbero essere riluttanti a rinnovare o ad estendere le linee in questo periodo».
Il tema riguarda anche l’Italia. Da un lato il Paese è dominato dalle piccole, medie e micro imprese, che difficilmente hanno accesso al mercato dei capitali. Esistono i minibond, ma restano un fenomeno di nicchia. Dall’altro la volatilità italiana sui mercati ha penalizzato anche le nostre grandi imprese sui mercati: «In Italia le emissioni obbligazionarie da parte delle aziende sono state inferiori, proporzionalmente, rispetto ad altri Paesi – osserva Fabbrizi di Hsbc -. Il motivo è stato prevalentemente tattico: a fronte di una maggiore volatilità le aziende italiane hanno gestito con attenzione il ritorno sui mercati di capitali attendendo un arretramento degli spread e una quasi normalizzazione durante i mesi di giugno e luglio. L’Italia ha tassi sui titoli di Stato più elevati e ha una maggiore volatilità sui mercati. Questo ha reso meno conveniente per le nostre aziende emettere bond nel primo periodo della pandemia, rispetto alle imprese di altri Paesi. Le italiane hanno avuto in quel periodo varie alternative al mercato dei bond».
Per esempio, da noi i tassi bassi sono arrivati – pur a fatica – dai crediti garantiti dalla Sace. Ma qui c’era una garanzia, pubblica. Tutt’altra cosa rispetto al mercato dei bond. Ammesso che ora non siano i finanziamenti Sace a “trasformarsi” in bond.